Antonella Palermo – Città del Vaticano
Scovammo il signor Antonio Calò e la sua famiglia prima che la sua storia fosse valorizzata e amplificata grazie all’Onorificenza al Merito della Repubblica di cui il Presidente Sergio Mattarella lo insignì nel 2015. La motivazione evidenziava “l’esempio di civiltà e generosità che ha fornito aprendo la sua casa a sei giovani profughi giunti nella provincia di Treviso dopo essere sbarcati a Lampedusa”. Ci colpì subito l’affabilità nel tono, la capacità di visione, l’acume nel ragionamento. Professore liceale di storia e filosofia, nei giorni caldi dell’arrivo dei profughi nella Marca, Calò apriva la propria casa, dove vive con la moglie e i quattro figli, a sei giovani di Costa d’Avorio, Ghana, Gambia e Guinea Bissau. Divenne così, diremmo, un papà al quadrato. Lo abbiamo risentito qualche giorno fa, nell’imminenza di trasformarsi stavolta in una sorta di papà… al cubo. I ragazzi infatti cominciano a portare le loro fidanzate e uno di loro, della Costa D’Avorio, ha intenzioni serie di sposarsi. “L’altro giorno è venuto da noi e ce l’ha presentata dicendo di non preoccuparci: ‘se venite in Africa ci saranno le donne del villaggio che vi faranno il vestito adatto per la cerimonia. Vorremmo dare il vostro nome ai nostri bambini’. Mi sono proprio emozionato. E’ questa normalità che mi riempie di gioia”.
Raccontare e lasciarsi raccontare
I ragazzi arrivarono un giorno con un pullman in Sicilia, senza nulla. Ora tutti hanno un loro lavoro, vivono in una casa indipendente. “C’è il senso della compiutezza, li abbiamo resi autonomi a camminare con le loro gambe”, racconta Antonio. “E’ una cosa bella pensare che queste persone venute da lontano oggi si sentono normali nel nostro Paese e vivono anche le esperienze affettive in modo naturale”. Antonio si proietta già alla dimensione dell’essere nonno: “E’ una cosa bellissima quella del guardare lontano attraverso i nipoti. Dà il senso a tutto quello che è stato fatto. C’è dentro la capacità di trasmissione che è uno dei temi più belli, secondo me, della paternità”.
E’ nel merito della narrazione, nella potenzialità e nella sfida del raccontare, che si addentra Antonio, come se davvero là si annidasse molto dell’esperienza della paternità. “E’ diventata cosa rara oggi”, precisa. Torna all’etimologia del termine: “Attraverso il racconto si riesce a tradere saperi, esperienze, sconfitte e vittorie della vita affinché tutti quanti siano partecipi nel modo più bello che sia. Ora, però, questa è una dimensione sta venendo a mancare”, lamenta. “Siamo di fronte a generazioni che non hanno il contatto con il racconto, quando invece il racconto era un ponte fra le generazioni, in passato”. E’ anche un fatto emozionale, aggiunge. Un modo per mostrare cosa è stato, cosa può essere. Calò si spinge a considerare che “questo spazio in Europa è molto limitato e ciò ci rende molto più poveri. In Africa, devo esser sincero, c’è molta più ricchezza in questo senso. Io dico sempre a tanta gente che ci invita a raccontare la nostra esperienza che noi siamo diventati dei miliardari di unità”. Trovare le parole per dire: una forma ulteriore e immensa di fecondità.
I silenzi e i gesti di San Giuseppe, il modo di far crescere
Ma raccontare è calibrare parole e silenzi, pieni e vuoti. “Una cosa che mi ha sempre colpito di Giuseppe, il papà di Gesù, è il silenzio”, ammette Calò. “Ho imparato io stesso che il silenzio è lo spazio, il terreno ideale per un ascolto. Così si fa il dia-logo. Gesù era al fianco del padre nell’essere falegname, un lavoro fatto di tanti silenzi ma anche di tanti occhi. Ognuno di noi, osservando, impara. Imparare nel silenzio è importantissimo”. E spiega quanto questo tratto sia stato essenziale e rivelatorio nella esperienza di accoglienza che ha fatto insieme a sua moglie, che ribadisce essere lei il fulcro di tutto: “I nostri figli neri ce lo hanno ripetuto spesso, hanno avuto il coraggio di dirmelo: ‘la nostra fortuna è stata vivere vicino a voi, noi siamo stati vicini a voi, accanto, mattina sera pomeriggio, continuamente, vi abbiamo osservato’. Quel guardare ha fatto la differenza e la sta facendo tuttora nella misura in cui hanno imparato legalità, modi, stili così che anche gli altri potessero accettarli nella loro nuova terra. Non è cosa da poco”. Il segreto di essere testimoni credibili trova qui la sua perfetta sintesi e il suo circuito virtuoso nella restituzione di una consapevolezza, non per mero compiacimento, ma per aiutare a mettere a fuoco, per crescere reciprocamente nella sincerità. “Nel nostro caso – precisa Calò – c’era il problema enorme delle lingue; eppure proprio là subentrava lo sguardo, il gesto. Cose molto semplici ma straordinarie che creavano l’unità”.
Ricreare la sacralità e la fiducia in una casa
“Questi ragazzi, rivolgendosi a me, hanno riportato il tema della sacralità nella nostra casa, verso la mamma – che è il soggetto più sacro per loro – ma, direi, verso il ruolo del padre come persona di cui fidarsi”, confida Antonio. “Loro dicono: ‘papà, dicci cosa dobbiamo fare e noi lo faremo’. Questa fiducia totale nel padre indica la strada che per me è straordinaria. Dovrebbe vedere gli occhi dei miei figli bianchi di fronte a questa modalità tra padre e figlio, straordinario!”.
I nuovi equilibri, le difensive, le gelosie… Come si gestiscono? “I nostri figli si sono dovuti mettere per forza in discussione ma non c’è mai stato un diverbio, se non all’inizio. Nondimeno, nel giro di pochi mesi si è innescato uno scambio tra fratelli che è stato totale. Si scambiavano i vestiti come tra fratelli veri. Mi creda, gli episodi si sono svolti senza strappi e nella consapevolezza che ormai quella era la famiglia, aperta, in cui ciascuno ha un proprio ruolo”. Giuseppe non spiega ma accoglie, leggiamo nella Lettera del Papa. Antonio può confermarlo: “l’accoglienza è prima di tutto intima, profonda. Quando nascono i figli dobbiamo accogliere l’idea di accogliere dei figli – si perdoni la ridondanza – e che, soprattutto, sono diversi da noi”. E aggiunge: “Noi abbiamo vacillato solo all’inizio. Le persone ci giudicavano sotto tanti punti di vista (ma cosa state facendo?). Questo ci addolorava. Ma poi non ci sono stati più dubbi”.
La creatività nell’inventare nuovi equilibri
Giuseppe – lo si ricorda nella Patris Corde – è anche l’uomo dal coraggio creativo, artigianale. I calò la creatività la fanno affiorare ogni giorno. La famiglia allargata di Antonio Calò e Nicoletta Ferrara ha dovuto ‘inventare’ non solo un equilibrio nuovo ma anche attività per i nuovi arrivati che, pure, erano già persone adulte, con una loro identità, ben chiara e strutturata. “Per noi è stata una grazia. Io come padre mi sento profondamente gratificato e grato. Penso che anche San Giuseppe sia stato molto grato a vivere quella esperienza pur vivendo la tragedia, intuendo cosa Gesù avrebbe patito. Noi abbiamo ascoltato cosa questi ragazzi avevano patito”. L’immagine con cui ci si congeda rimanda alle aule scolastiche: “Una delle frasi che non ho dimenticato mai è quella che mi hanno detto i miei studenti quando la cosa è diventata nota e pubblica: tutti si meravigliano, prof, per quello che lei sta facendo, noi ci saremmo meravigliati se non l’avesse fatto”. La testimonianza come unica, vera lezione della vita.