Adriana Masotti – Città del Vaticano
Sono i versi che danno il titolo al libro di Antonio Coccoluto. A scriverli è Egidio Santanchè, un medico marchigiano specializzato in pediatria e psichiatria, che così dava voce all’intensa sofferenza e al buio sperimentati in diversi periodi della sua esistenza in cui a scomparire nella sua anima era la stessa fiducia in Dio e nella sua misericordia. Nato nel 1927, Santanchè muore nel 2005 a Grottaferrata, località dei Castelli Romani, dopo esser stato colpito da un ictus due anni prima. La sua vita professionale si svolge tra Trieste e Roma, ma vive anche a Torino dove per sei anni, dal 1956 al 1961, dirige l’Istituto di rieducazione minorile “Cesare Lombroso” apportandovi riforme nel metodo educativo che sono una vera rivoluzione culturale per quell’epoca. Pur venendo da una famiglia profondamente cattolica, il giovane Egidio cercava Dio e in quel periodo storico di grande fermento sociale e ecclesiale che fu il secondo Dopoguerra, per lui è determinante l’incontro con Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari. Tra loro si stabilisce un rapporto di grande confidenza: Chiara lo sostiene nei momenti di oscurità, Egidio l’aiuta nell’affrontare i momenti complessi degli inizi del Movimento. La sua è la testimonianza di fedeltà ad una vocazione di donazione agli altri lungo un percorso travagliato, mai tranquillo, in cui riesce però a far trovare a tanti il senso della vita. I suoi prediletti erano i più fragili: bambini, anziani, malati psichici, i “senza posto”, così come lui si sentiva. “L’essere vicino a chi patisce è la mia dimensione”, scrive di sè. E ancora: “Nel fondo di ogni anima c’è Lui che mi attende”.
Coccoluto: una storia di cui sono stato testimone
Ma Egidio ama tutto ciò che è umano e fa parte dell’esistenza, è una persona profondamente laica e insieme spirituale, una persona libera e arguta, pieno di idee e iniziative, un adulto rimasto bambino: quel bambino evangelico di cui Gesù dice: “Se non diventerete come i bambini non entrerete nel Regno dei Cieli”. Lo ha conosciuto così Antonio Coccoluto, che l’ha incrociato da giovane e poi, per 30 anni, ha continuato a frequentare condividendo con lui la stessa scelta radicale di Dio all’interno del Movimento dei Focolari dove Egidio Santanchè era conosciuto con il nome di “Soave.” Per l’autore è stata una delle persone che più hanno inciso nella sua vita e a cui con questo libro, vuol restituire qualcosa di quanto ha ricevuto. Ai microfoni di Vatican News spiega come dalle sue pagine, scritte nel corso di numerosi anni, emergano prospettive di speranza utili per tutti:
Antonio Coccoluto, lei dice che non ha inteso scrivere “Un filo d’erba che fissa le stelle” per i membri del Movimento dei Focolari, o comunque non solo per quanti conoscono quella realtà che, comunque fa da sfondo a tutto la narrazione, perché la vicenda e la figura di Egidio Santanchè possono dire molto a chiunque…
Sì, nell’ultima pagina del volume io riporto una citazione di Edith Stein che mi sembra veramente magistrale: “Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo dire soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato”. Mi sembrava che questo scritto esprime molto bene questa storia e questa personalità. In particolare, tutta la prima parte del libro – che è proprio la sua autobiografia ma che finisce all’inizio degli anni Sessanta – racconta una storia veramente semplice ma anche straordinaria nel contesto di quell’immediato dopoguerra in cui c’era grande effervescenza per la ricostruzione e in cui la dimensione ecclesiale era molto forte, così come il lavoro dei Comitati civici in vista delle prime elezioni ecc… Poi viene fuori la vicenda di una famiglia molto particolare, di 11 figli, con una mamma che muore appena nato l’ultimo durante la guerra, un papà che deve tornare dal fronte e per questo si salva, e questa famiglia sviluppa una tale dimensione di fraternità, di vita familiare in quei tempi così difficili che a leggere oggi questa storia fa veramente molta impressione, ma ci dà anche una grande spinta per capire che è possibile emergere anche dalle situazioni più tragiche. E, detto oggi, questo dà molto al lettore.
Nella seconda parte del libro il discorso si fa più complesso perchè entra molto più in evidenza l’appartenenza di Santanchè al Movimento dei Focolari e quello che si è vissuto in quell’epoca in cui tutto era all’inizio, il Movimento era sotto lo studio della Santa Sede e si vivevano anche le prime difficoltà interne. Allora lui per la sua professione ha seguito tante situazioni personali con un equilibrio, con una capacità notevoli. A me sembra che questa, facendo lo sconto anche del contesto che può essere chiaramente specifico, sia una grande storia anche dal punto di vista di chi si prende cura degli altri a qualsiasi livello, e di questo io ne sono un testimone.
Una storia sacra, quella di Egidio Santanchè, così è stata definita proprio nella postfazione del volume stesso. Ma qual è la principale cifra di questa storia?
Tutta la sua vicenda parte da una dimensione profondamente interiore, la ricerca di Dio che poi trova la sua confluenza nell’incontro con Chiara Lubich. E lui è uno dei primi tra quanti le sono vicini quando Chiara da Trento scende a Roma negli anni ’50. Quindi tutta la sua vita è all’interno di una novità ecclesiale, a quell’epoca veramente nuova, con tutto quello che ciò comporta, e quindi con un intreccio di vita personale e comunitaria in cui ovviamente si ha a che fare anche con l’esperienza dello Spirito Santo. Ecco la sua, in questo, è una storia particolare perché lui fin da molto giovane passa dei momenti di profonda prova interiore e psicofisica che gli permetterà poi di cogliere, nel percorso degli altri, tutta una dimensione di lotta, di lotta anche con Dio. Fa questa esperienza profonda, anche di periodi di grande oscurità, e in questo senso è una storia sacra perché è piena di situazioni incredibili, di momenti difficili, di decisioni che lui ha dovuto prendere in coscienza, senza tante volte potersi confrontare con nessuno e, io direi, con una fedeltà incredibile proprio alla voce interiore e alle situazioni esterne. Tutto questo porta Egidio ad una grande conoscenza della vita interiore e in qualche caso anche della vita mistica.
Una storia sacra, abbiamo detto, profondamente laica, carica di esperienze dal punto di vista professionale, ma anche per la personalità ricca di Egidio in cui convivono tanti aspetti: l’amore per la famiglia di origine, per la natura, per la letteratura e la poesia. Perfino per la cucina, sapeva fare le fettuccine se serviva per far festa a qualcuno e anche per lei lo ha fatto, mi sembra…
Questo è forse l’aspetto più interessante, nel senso che quando uno pensa alle persone che hanno una forte dimensione interiore, o che fanno delle scelte forti di vita come quella di Egidio o anche come la mia, si ha ancora oggi in mente un certo stereotipo, ma in effetti questa è stata la cosa che mi ha colpito di più. Quando io l’ho incontrato, la prima volta ero giovanissimo, e poi quando ci siamo frequentati, era veramente impressionante stargli vicino perché era una persona indefinibile: di una libertà assoluta, con una semplicità, un’arguzia, un’originalità e questo si vedeva nelle cose di tutti i giorni e poi si vedeva in quelle più serie, ma in lui non c’era nessuna separazione. La scena di lui che mi rimane più impressa è di quando lo accompagnavo nei consultori pediatrici nella zona di Subiaco dove lui andava per parte della settimana, e c’era veramente una sintonia speciale fra lui e i bambini, perché lui aveva questo senso immediato dell’empatia, basato anche su tutta una professionalità. In lui c’era proprio la passione per “l’uomo” e ovviamente soprattutto per le persone più in difficoltà.
C’era la sintonia con il dolore degli altri, la predilezione verso gli ultimi, per “i senza posto” come lui gli chiamava. Egidio ha saputo quindi far fruttare il proprio dolore personale in amore per gli altri?
Io ricordo che Chiara Lubich stessa, che lo seguì tantissimo nel primo momento difficile, gli disse: “Quello che stai vivendo è certamente qualcosa di molto umano, un momento molto difficile sul piano psicofisico, ma anche una prova di Dio, ti insegnerà le profondità del dolore e dopo potrai capire gli altri molto di più”. E gli consigliò di studiare psichiatria: “e così – gli disse – tu unirai l’esperienza personale alla competenza.” E di fatto è quello che poi è successo e ci sono innumerevoli storie su questo, storie con persone anche importanti che Egidio ha seguito tutta la vita, ma i suoi prediletti erano proprio quelli senza posto, quelli in cui ritrovava la sua storia personale.
Straordinario quello che ha saputo fare per i ragazzi del riformatorio di Torino, la sua visione educativa nuova…
C’è quest’esperienza in cui lui dirige l’Istituto minorile a Torino che lui racconta in maniera a volte spassosa, ma che comportava grandi rischi. Questa cosa ha avuto degli impatti notevoli, tra il 1956 e il ’61 a Torino avviene una mezza rivoluzione, e ci dà l’idea di che cosa poteva essere una visione di recupero dei ragazzi dove loro fossero i protagonisti, i ragazzi che allora venivano chiamati deviati, delinquenti. E dietro a tutto questo c’era un’idea: l’idea della responsabilità, del reinserimento, l’idea di una comunità di vita.
Egidio Santanchè scriveva favole per i bambini, ha scritto anche tante poesie non ancora tutte pubblicate: ce ne dà un assaggio e ci dice qual è la sua preferita e che secondo lei esprime meglio la sua esperienza di vita?
Quella che vorrei citare s’intitola “Nessuno saprà”, perchè racchiude il rapporto specialissimo che Egidio ha avuto con Chiara, soprattutto il ruolo che le circostanze hanno voluto che lui svolgesse per lei in momenti molto delicati e molto difficili e, siccome questo lavoro doveva avvenire in totale segretezza anche rispetto ai suoi più stretti collaboratori e ai suoi compagni di vita, questo è stato un ruolo che per lui è costato anche tanto, e lui alla fine scriverà questa poesia. Io penso che sia veramente la cifra di tutto e penso che chi ha conosciuto profondamente Egidio sa che la sua storia può essere tutta sintetizzata da questi versi.
Per concludere, vorrei fare una sintesi su che cosa rimane dopo la lettura del libro: la scelta radicale di Dio fatta da Egidio Santanchè e la certezza che dopo ogni oscurità tornano a brillare nel cielo le stelle…
Sì, infatti ad un certo punto si scrive nel libro che questa vicenda può essere di grande aiuto per tutti perché ci mette davanti anche all’imprevedibilità dell’esistenza di cui tutti i giorni noi, mi sembra, facciamo l’esperienza volenti o nolenti, ed è un’ispirazione continua perchè uno dei suoi versi più belli è questo: “non esiste notte che non fiorisca mattini”. Ecco questo senso della speranza, anche in condizioni tragiche, è veramente una cosa di cui abbiamo bisogno tutti, soprattutto oggi.