Michele Raviart – Città del Vaticano
L’invito ai cittadini è quello di restare a casa, quello ai negozianti è di abbassare le serrande dalle dieci di mattina alle quattro di pomeriggio. È lo “sciopero silenzioso” – il terzo dopo quello dello scorso marzo e nella giornata per i diritti umani a dicembre – indetto oggi in Myanmar in segno di protesta ad un anno dal golpe militare che ha trascinato il Paese del sudest asiatico nella guerra civile e in una crisi sociale dalla quale si fatica a vedere la fine.
Il controllo delle comunicazioni
Almeno 58 le persone arrestate finora dalle forze di sicurezza in tutto il Paese per cercare di fermare l’organizzazione del dissenso, sulla base principalmente di post su Facebook che annunciavano la chiusura dei negozi. Con una legge sulla cybersicurezza già pronta e che nelle prossime settimane si pone come obiettivo quello di controllare ogni forma di comunicazione elettronica, di accedere ai dati e di bloccare i servizi Vpn che permettono di superare i blocchi già in vigore, quella della sorveglianza digitale è solo l’ultima delle strette dei militari contro la popolazione dal primo febbraio scorso.
I dati della repressione
Circa 1500 sono state le persone uccise dall’esercito dall’inizio delle proteste. Quasi 12 mila gli arresti, secondo gli attivisti dell’associazione di assistenza ai prigionieri politici. Due i giornalisti uccisi, altri torturati in prigione, in una delle situazioni più difficili al mondo per quanto riguarda la libertà di informazione. Oltre 400 mila gli sfollati, soprattutto nei villaggi rasi al suolo negli scontri tra i militari e le milizie etniche locali, con 32 mila persone che hanno trovato rifugio nei Paesi confinanti.
La resistenza ai militari
In migliaia, invece, hanno preso le armi e si sono uniti alle Forze di difesa del popolo, braccio armato del “Governo di unità internazionale”, formato da esponenti della Lega nazionale per la democrazia del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e dalle milizie etniche che per decenni hanno lottato contro i militari prima del periodo di transizione, terminato proprio con il colpo di Stato di febbraio. Un’amministrazione parallela che lo scorso settembre ha dichiarato una “guerra difensiva” contro l’esercito, in una tensione costante in cui, a farne le spese, sono spesso i civili, come nel caso