La capitale della Mongolia, che Francesco visiterà dall’1 al 4 settembre presenta un panorama urbanistico disorganico, con casermoni sovietici ed edifici di nuova costruzione che accompagnano il boom demografico. Sullo sfondo, le tipiche ger dei pastori nomadi, molti dei quali hanno lasciato le montagne per le rigide temperature e vivono in città in povertà. Per loro e per tutta la gente ai margini, l’opera incessante di suore e missionari per assistenza e educazione
Salvatore Cernuzio – Inviato a Ulaanbaatar (Mongolia)
Sembrerebbe un quadro impressionista di Monet, il cielo di Ulaanbaatar, se non fosse per la perenne coltre grigiastra frutto dell’inquinamento dato dalle ciminiere lungo le strade e dal carbone di bassa qualità usato per riscaldare le ger, le tradizionali abitazioni dei pastori nomadi. La capitale della Mongolia, che Papa Francesco visiterà da domani 1° settembre fino a lunedì 4, per il suo 43.mo viaggio apostolico, è terra di contraddizioni urbanistiche, architettoniche, sociali.
Città di tanti volti
Ha cambiato il suo volto diverse volte nella storia, come pure il nome: dall’antica Urga, com’era chiamata fino al 1911, villaggio di templi buddisti e tende di legno, poi ribattezzata Niislei Khuree, dieci anni più tardi è divenuta Ulaanbataar (Eroe Rosso), con l’occupazione sovietica. Quella che ha annullato ogni traccia di identità spirituale dal territorio, rifiorita invece quasi “per miracolo”, come afferma la gente del posto, negli anni ’90, con la transizione democratica nel Paese.
Boom demografico
Tra i cambiamenti che la città ha vissuto negli ultimi trent’anni c’è anche quello demografico, con una popolazione triplicatasi fino al milione e 700 mila abitanti, più della metà dell’intera popolazione della Mongolia. Anche se continuano ad essere più i cavalli delle persone. “Sei per ogni uomo”, dice sorridendo padre Andrés Gavis, 42enne missionario della Consolata, colombiano dal 2016 in Mongolia, dove collabora alle iniziative della Congregazione. La stessa a cui appartiene “Giorgio” o “cardinale Giorgio”, come tutti chiamano il prefetto apostolico Marengo, che ha ricevuto la porpora nel Concistoro del 2022 e sarà a fianco al Papa in questi giorni di viaggio.
Il boom demografico, spiega il sacerdote, è dovuto anche a campagne governative che forniscono 100 mila tugrik a bambino più una medaglia alle mamme che partoriscono almeno quattro figli. La crescita della popolazione è stata ed è tuttora accompagnato da un continuo sorgere di edifici in costruzione: se ne vedono centinaia di scheletri di cemento e mattoni che affiancano casermoni di epoca sovietica, grattacieli e centri commerciali. In mezzo, parchi per bambini e giardinetti con scivoli di plastica.
Panorma disorganico
Un panorama disorganico ma non certo desolante come descritto da tante cronache occidentali. Almeno non in questi primi giorni di settembre che vedranno la visita del Papa, dove un inusuale sole primaverile accende il verde delle vallate che dall’aeroporto intitolato al riottoso fondatore della patria, Gengis Khan, costeggiano quella sorta di ‘autostrada nel nulla’ che conduce fino al centro città. Lì l’unica forma di vita sono capre, mucche e asini, alcuni vicinissimi al guardrail.
Sullo sfondo spicca una distesa di casette colorate di legno sparse anch’esse disordinatamente lungo le montagne. Quasi un presepe realizzato da un artigiano del Sud America. Il ‘tocco’ asiatico lo danno le ger, i tendoni bianchi dei pastori realizzati con stecche di legno richiudibili, ricoperte da feltro e pelliccia di pecora. I pastori le montano e rismontano nei luoghi più opportuni a vivere, anzi, sopravvivere ai rigidissimi inverni durante i quali fa buio alle 15 e le temperature scendono fino a – 40 gradi.
La vita dei nomadi pastori, sotto la soglia di povertà
Molti continuano come gli antenati a risiedere nelle montagne, allevando vacche, capre e yak, da cui ricavano il latte per biscotti e yogurt (quello secco è una pietanza tipica) e anche carne e pelle per realizzare i tipici gutal, stivali resistenti ad ogni stagione usati per andare a cavallo. Gli sbalzi climatici (35 gradi d’estate e -40 d’inverno) – che usurano l’asfalto e i cornicioni dei balconi, usati l’inverno come frigoriferi naturali dove poggiare birre e carne comprati al mercato – uniti ai venti implacabili delle steppe e alla progressiva desertificazione, hanno causato però una ingente perdita del bestiame e della vegetazione. E perciò negli ultimi anni molti pastori hanno scelto di trasferirsi in città, rivendicando il diritto concesso ad ogni mongolo di 18 anni ad ottenere un pezzo di terra. Non tutti, però, sono nella condizione di acquistare appartamenti in muratura, almeno non subito, devono passare almeno una quindicina di anni prima di vendere gli animali e magari la stessa ger (dal costo di 3 milioni di tugrik) e costruirsi un appartamento.
Anche una doccia un’impresa
Si rimane quindi in tenda, a riscaldarsi alle stufe accese per due terzi dell’anno e accalcarsi nei cosiddetti ger district dove mancano le fogne e pure l’acqua corrente. I bambini di 8-10 anni, come servizio alle famiglie, vanno a recuperarla in contenitori da 20 litri con dei carrettini in punti stabiliti dal governo. “C’è una buona gestione dell’acqua”, spiega padre Andrés, ma anche una doccia diventa una impresa. È possibile farla, ad esempio, a pagamento nei bagni pubblici del mercato di Dolon Bouudal, in mezzo a banchetti di carne e frutta. Per questo tra le prime iniziative prese dai Missionari della Consolata e dalle suore della stessa Congregazione – unico caso, la Mongolia, di collaborazione congiunta tra ramo maschile e femminile – è quello di offrire docce gratis a turni per tutti.
L’opera grande della piccola Chiesa
Un modo per restituire un minimo di dignità a tanta gente rimasta ai margini del perimetro sociale. Per il piccolo gregge cattolico, l’aiuto ai “poveri più poveri” è una priorità assoluta. Sarà pur piccola la Chiesa mongola – poco più di 1200 unità tra suore, sacerdoti, missionari della Consolata, salesiani, congregazione del Cuore Immacolato di Maria, comunità neocatecumenali, catechisti, religiosi, laici – ma si dimostra tuttavia iper attiva e presente in ogni ambito del vivere comune. A cominciare dall’educazione. “Non tanto in città”, spiega ancora padre Andrés Galvis, “bensì in campagna dove ci sono dinamiche diverse: le famiglie educano i figli da soli, se qualcuno di loro sembra più bravo lo mandano in città o a studiare da un familiare. Il risultato è che troviamo spesso bambini di 12 anni che hanno difficoltà a leggere e fare i calcoli”.
L’aula del doposcuola dei missionari della Consolata
Per questo, pochi mesi fa è nata la missione Mandah Naran, “Il sole nascente”, che grazie anche alla guida appassionata della suora colombiana Maria Esperanza Becerra Medina fornisce un doposcuola ma anche spazi di gioco, socializzazione e preghiera a una quindicina di bambini e adolescenti del distretto di Chingeltej. Una sorta di favela, quest’ultima, nella periferia rurale di Ulaanbaatar. Ci si arriva in macchina attraverso strade polverose, prestando attenzione agli uomini ubriachi che attraversano incuranti delle vetture ibride giapponesi che suonano il clacson anche al passaggio di un uccellino.
L’emergenza alcolismo
L’alcolismo è uno dei maggiori problemi di Chingeltej, ma in generale di tutta Ulaanbaatar. Il sacerdote spiega come in passato era il governo stesso a concedere un giorno di ebrezza a settimana alla popolazione. In un Paese di produzione di vodka, la situazione è sfuggita di mano e in famiglie in cui si arriva a fatica a tirare le somme a fine giornata ha portato a indebitamenti ed episodi di violenza e prostituzione. “Anche lì siamo intervenuti – dice padre Galvis – creando nelle ger spazi per incontrare uomini, separatamente dalle donne, per farli parlare e fornire talvolta assistenza psicologica”.
Il lavoro incessante delle suore di Madre Teresa
Un’opera sociale, dunque, incessante in una sinergia tra varie realtà che risulta quasi commovente guardando i numeri esigui e le oggettive difficoltà logistiche. Ne sono esempio i pacchi di merendine coreane nella biblioteca di Chingeltej: “Ce le hanno date le suore di Madre Teresa qui vicino. Loro vivono di provvidenza e quando hanno di più ce lo danno”, dice Andrés. Visitando la casa delle Missionarie della Carità, a dieci minuti da Chingeltej, nel distretto di Darekh e osservando il grande lavoro compiuto giorno dopo giorno con i “nonnini” e le “nonnine”, come chiamano i gruppi di anziani malati, disabili, paraplegici, che assistono H24 in due strutture diroccate, si fa fatica a pensare che ci siano viveri in avanzo. Circa 24 bocce da sfamare ogni giorno che restituiscono solo sorrisi sdentati e lamenti, ma anche momenti di gioia come quando applaudono e si trascinano con il poco delle forze per indossare abiti tradizionali e posare per una foto per i media vaticani.
Il volto di Cristo
“Siamo felici, io sono felice”, dice Pürev, in italiano “Giovedì”. Ha 75 anni, problemi agli occhi, un solo figlio lontano. Dal 25 aprile abita con le suore “che mi aiutano in tutti i modi in cui possono aiutarmi”. Prima si sentiva solo, dice, ora è “in famiglia” e vorrebbe pure battezzarsi. Ci ha provato a farlo da solo buttandosi una brocca d’acqua in testa e invocando la benedizione di Tengeriin Ezen, il Signore del Cielo. Sorride a fianco a lui suor Viera, slovacca, da un anno a Ulaanbaatar: “In questi poveri c’è il volto di Cristo. Nessuno si prende cura di loro. Siamo in collaborazione con gli assistenti sociali che ci segnalano le persone sole e noi le raccogliamo, a volte anche dalla strada, cercando di offrire ogni cura possibile”.
A tutti ora giungerà la carezza del Papa a cui il popolo mongolo non cattolico guarda incuriosito: un “personaggio importante” che viene in casa loro. Un bel segno per la gente, il suggello per una Chiesa chiamata “bambina” ma già ormai adulta.