Chiesa Cattolica – Italiana

Turchia, Ilgit: fermare gli eccidi in Medio Oriente, il Giubileo un nuovo inizio

Il vescovo turco, nominato oggi amministratore apostolico di Anatolia, offre un quadro della Chiesa nel Paese e invita in questa terra “ricca di potenzialità” i giovani preti desiderosi di spendersi come “fidei donum”. La situazione post-terremoto rimane grave: “Abbiamo ancora la nostra cattedrale da ricostruire”

La nomina di monsignor Antuan Ilgit, S.J. ad amministratore apostolico di Anatolia, già ausiliare, raccoglie l’eredità di monsignor Paolo Bizzeti, anch’egli gesuita, e la rilancia. Primo vescovo autoctono, Ilgit è stato nominato oggi da Papa Francesco amministratore apostolico sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis della circoscrizione ecclesiastica guidata dal 2015 dal gesuita italiano Bizzeti che, a 77 anni, ha presentato la sua rinuncia. Ilgit è stato assistente-parroco della comunità cattolica di lingua turca della parrocchia di Meryemana ad Ankara ed economo della locale comunità dei Gesuiti (2010-2011); animatore di comunità, membro dell’équipe formativa e padre spirituale presso il Pontificio Seminario Campano Interregionale di Posillipo (2017-2020); docente di teologia morale e bioetica alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (2017-2023); Vicario delegato e Cancelliere vescovile del Vicariato Apostolico di Anatolia (dal 2022). È portavoce della Conferenza Episcopale turca, nonché responsabile della pastorale giovanile e vocazionale e presidente della Commissione nazionale per la catechesi.

Lei è il primo vescovo autoctono, come accoglie questa nomina?

La fiducia che la Santa Madre Chiesa pone in me attraverso questa nomina, accompagnata dalla costante vicinanza del Santo Padre ai fedeli del Vicariato Apostolico dell’Anatolia espresse in varie maniere, mi incoraggiano a impegnarmi sempre di più. Questa nomina significa un autentico apprezzamento della potenzialità e della ricchezza della Chiesa di Turchia. La realtà che mi circonda mi interpella costantemente spingendomi sempre verso la gente, i poveri, i diseredati, i rifugiati, i giovani. Ora che mi viene affidata la piena responsabilità di un Vicariato grande quanto l’Italia e che finora ho servito come ausiliare, mi sento chiamato a essere sempre di più un pastore che sta con la sua gente, si mischia nella loro quotidianità con quelle tre caratteristiche del Signore, ribadite molto spesso dal Santo Padre: vicinanza, misericordia e compassione. Il nostro Vicariato ha bisogno di un vescovo che risiede sul territorio; che non è un manager né un funzionario ma è un testimone; non è autoreferenziale ma è sinodale, ovvero prima di decidere ascolta lo Spirito che parla alla Chiesa e coloro che costituiscono la Chiesa.

Come sta crescendo la Chiesa cattolica in Turchia?

Come dicevo, è una Chiesa che ha tante potenzialità e tanta ricchezza. È una Chiesa frequentata sempre di più dai giovani desiderosi di cambiare, di contribuire, di servire. Una Chiesa sempre più capace ad accogliere… tanti rifugiati cristiani, studenti universitari africani già cattolici; i pellegrini occidentali sulle orme dell’Apostolo delle genti e di tanti altri confessori della fede che hanno reso la mia amata terra la “terra santa della Chiesa”, come soleva dire monsignor Luigi Padovese che mi piace citare spesso. È una Chiesa che non ostenta, che senza clamori, cercando di vivere la parola di Dio che santifica e salva, testimonia.

Quali sono i frutti di dialogo con le altre Chiese e con le altre fedi?

L’ecumenismo e il dialogo interreligioso, studiati tanto, su cui sono stati scritti documenti su documenti, volumi su volumi, vengono vissuti da noi nella nostra quotidianità. Un ecumenismo vissuto nella quotidianità tra noi pastori cattolici, ortodossi, armeni apostolici e cosi via, partecipando vicendevolmente alle celebrazioni, agli avvenimenti, condividendo le proprie risorse senza stare a contare, senza aspettarsi qualcosa in cambio. Ecumenismo vissuto anche attraverso le famiglie miste, che una domenica partecipano alla Messa nella parrocchia cattolica, un’altra settimana in quella ortodossa. La stessa cosa vale anche con i nostri fratelli e sorelle musulmani o di altre fedi: qui il dialogo, giorno per giorno, ha a che fare per esempio con le questioni di inizio vita. Noi cerchiamo di focalizzarci sulle cose che ci uniscono ma certamente senza ignorare le cose ci separano. L’accettazione caritatevole e il rispetto, il senso di ospitalità, la pietà e la carità che sono caratteristiche di questa terra ci aiutano a vivere tutto questo. Cristiani, musulmani, ebrei, yazidi siamo tutti cittadini allo stesso modo e tutti amiamo questa terra turca che sentiamo casa.

Il suo impegno con i giovani è molto spiccato. Come testimoniano oggi la speranza nel Paese? 

Chi sta vicino ai giovani rimane giovane! Una Chiesa che sa rimanere vicina a loro rimarrà giovane e attraente. Ma la mia esperienza con loro mi insegna che dobbiamo cambiare prospettiva. Abbiamo molto da imparare da loro. I giovani con la loro intelligenza, con la loro curiosità, con la loro intraprendenza crescono velocemente. Se come Chiesa non stessimo vicino a loro non riusciremmo a interpretare il loro linguaggio. Hanno bisogno di proposte serie, di sostanza che cercano di rispondere a quella inquietudine che li contraddistingue. Dall’altra parte mi colpisce sempre di più il loro desiderio di pregare, di fare l’adorazione eucaristica, di recitare il Rosario… Lascio organizzare tutto questo a loro in modo che siano loro ad accentuare le sfumature che vogliono, così si responsabilizzano e sperimentano la bellezza. E mi chiedono ripetutamente: “Padre Antuan, quando pregheremo di nuovo tutti insieme, ancora una volta vogliamo preparare tutto noi”.

Più di un anno e mezzo fa il terremoto in Turchia. Come procede la ricostruzione e come vi vede impegnati?

Viviamo in un mondo preso dalla frenesia, dove attualmente sono in corso tanti conflitti e avvengono molte catastrofi, i riflettori si spostano facilmente e velocemente da una direzione all’altra. Ciò è avvenuto inevitabilmente anche per la vasta zona terremotata, parte del Vicariato apostolico di Anatolia. Tuttavia, anche se non se ne parla più, la situazione rimane tuttora grave con una precarietà evidente, soprattutto nella città di Antiochia, in parte a Iskenderun, la sede del nostro Vicariato. Il governo sta cercando di fare la sua parte, il terremoto ha colpito una zona geograficamente enorme. Noi abbiamo ancora la nostra cattedrale da ricostruire e siamo costantemente in contatto con le autorità locali e centrali cercando di superare il più presto possibile alcune difficoltà burocratiche. Bisogna riconoscere che la disponibilità e la buona volontà c’è, il dialogo è sempre aperto. Ma la mia preoccupazione principale è quella di tener insieme le pietre vive che sono i nostri fedeli, cristiani che da duemila anni abitano questa terra, la vera cattedrale sono loro. Dopo il terremoto sono dovuti andare in altre città considerate più sicure ma per farli tornare bisogna offrire loro il lavoro, le scuole, le strutture sanitarie, sostenerli perché possano recuperare le loro case distrutte. Ora dispongo di una Caritas Anatolia che ha una nuova direttrice e che è più funzionale, più trasparente, che punta sui progetti minori, locali e mirati alle vere esigenze della gente. Procedere diversamente senza tener conto di questo sarebbe un grande peccato per tutto ciò che significano questi luoghi così cari alla cristianità.

Come vive il conflitto mediorientale? Che scenari intravede?

Non possiamo, non posso, rimanere indifferente ai conflitti in corso anche perché come Paese siamo nel bel mezzo. Come discepoli di Cristo che hanno a cuore la pace possiamo schierarci solo con chi vuole la pace. Come il Papa ripete quasi disperatamente, “la guerra è sconfitta”. Solo chi lotta per la vera pace sarà un vero vincitore. Ho un caro amico israeliano, Misha, che a causa del conflitto ha dovuto cancellare il suo matrimonio e non sa quando potrà celebrarlo in un ambiente di pace e di gioia; un’amica palestinese, Salma, che non è più potuta tornare in Europa per completare il suo dottorato e a Beirut ho i miei compagni gesuiti che sotto i bombardamenti continuano con impegno e sacrifici ad assistere i rifugiati sudanesi. Il Medio Oriente è la nostra casa, il mondo è il nostro giardino comune, stiamo rovinando la nostra casa comune. La creazione che noi roviniamo ci è stata donata affinché ci vivessimo da figli, da fratelli. Il problema non è il fatto che noi ignoriamo il sacrificio del nostro Salvatore Gesù Cristo sulla croce per renderci fratelli, figli, per donarci la sua pace, la vera pace. Che non ci siano più gli eccidi ma tutti insieme eccediamo nell’amore. Siamo chiamati a questo

Ci sono pellegrini nei luoghi di san Paolo? 

I pellegrinaggi riprendono e ciò è un bene per noi. Grazie a Dio, a parte la cattedrale, le strutture del nostro episcopio non hanno subito danni, così mi sto impegnando tanto per far sostare i gruppi a Iskenderun da noi. Nei prossimi mesi ospiteremo già tre gruppi grandi di pellegrini, religiosi e religiose, seminaristi e laici interessati a riscoprire le radici della loro fede. È bellissimo questo desiderio. Desidero invitare tutti a nostra casa, a Iskenderun, con le parole di Rumi: «Vieni, vieni; chiunque tu sia, vieni. Sei un pagano, un idolatra, un ateo? Vieni! La nostra casa non è un luogo di disperazione, e anche se hai tradito cento volte una promessa… vieni». Anche se è stata abbattuta dal terremoto questa terra rimane sempre bella, sempre sacra, anche perché è proprio qui che si apre e si chiude la Bibbia. Chi viene delle volte non vuole più ripartire, e se per caso parte, vuole sempre ritornarci. Un altro invito che voglio fare è rivolto ai giovani preti diocesani desiderosi di spendere la loro vita come fidei donum. Ho tuttora una parrocchia che da mesi è senza prete dove c’è un bel gruppo di giovani bisognosi di camminare. Delle volte bisogna uscire dalla propria realtà, perché il Signore ci chiama sempre ai confini, alle frontiere. La Chiesa in uscita di Papa Francesco… Come cristiani siamo sempre dei pellegrini.

La Turchia è un Paese di transito per migranti che affrontano il Mediterraneo per andare in Europa, con tutti i rischi connessi, ma è anche un Paese ospitante di persone in fuga dalle guerre, come quella in Siria. In che modo la Chiesa locale oggi affronta questa mobilità umana in gran parte sofferente?

Come dicevo, una delle caratteristiche più belle della mia terra è l’ospitalità; noi siamo capaci di ospitare alla grande anche quando abbiamo davvero poco nelle nostre mani. Mi ricordo sempre con molto apprezzamento e con tante emozioni tutte quelle volte in cui i miei genitori davano persino il loro letto matrimoniale ai nostri ospiti che venivano dalla Germania, dove io sono nato perché i miei genitori erano emigrati in Germania. Poi loro dormivano per terra. Quindi l’ospitalità è sacrosanta e l’intera nazione ha dato una grande testimonianza ospitando tanti siriani, ma anche iracheni, iraniani, afghani, persino ucraini e russi. Pensare alla tragedia di Cutro e non solo mi fa piangere il cuore, perché faccio fatica a identificare l’azzurro mare Mediterraneo della mia infanzia, dove con mio padre pescatore andavo a pescare, con un mare che risucchia migliaia di vite umane. Non sono dei numeri, tutti hanno un nome, un volto, una storia, sono tutti amati, desiderati dal Signore Gesù. Noi ci impegniamo, sì, ad accogliere chi non ha altra scelta che abbandonare la propria terra, ma non basta. Non basta dare loro dei vestiti, del mangiare, dei giocattoli. La Chiesa di Turchia, apparentemente piccola e con poche risorse, si sforza tanto, non solo per ospitarli ma soprattutto per farli sentire parte della comunità cristiana autoctona. Purtroppo, nonostante tutti i tentativi di raggiungere l’altra sponda sembra che continueranno a morire; che Maria, la stella del mare, assista loro affinché nessuno di loro si perda, mai più.

Come vi state preparando al Giubileo? C’è una storia concreta di speranza che sente di poterci raccontare?

Come ho portato un gruppo di 40 giovani a Lisbona, un gruppo che rappresentava l’intera Chiesa di Turchia, cattolici latini, siriaci, caldei, armeni, neofiti e catecumeni, anche in vista del Giubileo dei giovani di fine luglio ci stiamo preparando. Tuttavia, prima del viaggio verso Roma, nel nostro Vicariato faremo un cammino di preparazione con varie tappe. Bisogna preparare i “cuori” dei giovani e l’ultima enciclica del Santo Padre, Dilexit nos, ci offre una bella mappa per questo, con una precisa bussola che è il Sacro Cuore di Gesù: “È lì, in quel Cuore, che riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare”. I giovani di oggi, capaci di fare tante cose, spesso vengono meno nel riconoscere e apprezzare loro stessi. Li accompagnerò personalmente, stando accanto a loro affinché insieme scopriamo il vero amare come Lui ci ha amati. Una storia bella da raccontare? La chiesetta del convento dei cappuccini ad Antiochia si prepara a celebrare la Messa di Natale. I cappuccini si sono impegnati tanto per fasciare le ferite di questa chiesetta rovinata dal terremoto e così noi l’abbiamo definita come chiesa giubilare del Vicariato di Anatolia. Così la chiesetta della città di Antiochia cancellata quasi interamente dal terremoto sarà il segno giubilare di un nuovo inizio.

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