Il cardinale prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione firma la prefazione all’edizione critica di “Illustrissimi”, il volume che il futuro Giovanni Paolo I pubblicò nel 1976, raccogliendo una serie di suoi scritti idealmente indirizzati a santi e a personaggi della storia, della letteratura e della mitologia
di José Tolentino de Mendonça
Non deve sorprendere che venga riconosciuta a Illustrissimi la categoria di classico, la forma forse più adeguata per riferirci a questo libro – anche tenendo in conto che la destinazione iniziale dei testi in esso raccolti erano in alcuni casi le pagine di un quotidiano, «Il Gazzettino», di una rivista poi, il «Messaggero di sant’ Antonio», e che quando Albino Luciani cominciò, nel maggio 1971, la collaborazione con questo mensile di Padova non poteva di certo prevedere il ruolo cruciale che questo insieme di scritti avrebbe avuto non solo per il suo personale percorso ma anche per il cattolicesimo contemporaneo. Il fatto curioso è che ciò che potrebbe essere considerato un punto di debolezza diventa, al contrario, uno degli evidenti punti di forza di quest’opera. Sappiamo bene che il genere di scrittura di un giornale diverge dal carattere monografico o sistematico tipico dei saggi di ampio respiro, ma questo non necessariamente significa una condanna alla dispersione. La modernità lo dimostra chiaramente in molte opere prime letterarie, dove il regime di espressione è frammentario, eteroclito e discontinuo, senza che venga però sacrificato in alcun modo il sorprendente potere della loro unità. In questo senso, Luciani è un moderno.
Accetta di comunicare a partire da un pulpito e da un formato non convenzionali (è un vescovo che, dice ironicamente, si assume uno «strano impegno»).
Accetta di conversare non solo all’interno del recinto del sacro, ma sulla pubblica piazza, nel territorio aperto della cultura, reputando che la conversazione, questa sorta di sermo humilis accessibile a tutti, «è una gran bella cosa per la nostra vita di poveri uomini».
Accetta che l’arte dell’incontro si intessa nella capacità di costruire intersezioni, di mettere in relazione mondi e tempi diversi, di farsi contemporanei. A ragione Sainte-Beuve ricordava che «un vero classico» è quello che arricchisce lo spirito umano e gli consente «di fare un passo in avanti […] dove tutto sembrava conosciuto ed esplorato», ma che lo fa adottando «uno stile tutto suo, che è anche quello di tutti, uno stile nuovo senza neologismi, nuovo e antico, facilmente contemporaneo di tutte le epoche». Questa ‘facilità’, tuttavia, non deve essere fraintesa. L’espressione «il Papa del sorriso», che si farà poi ricorrente per evocare il beato Giovanni Paolo I – e la cui presenza in Illustrissimi è già così evidente –, si spiega non solo come esercizio di bonarietà, ma soprattutto come coscienza che la verità va esposta delicatamente, secondo il modello proposto da sant’Agostino. Non è per caso che, come scrive Stefania Falasca – la più importante conoscitrice della sua opera, a cui dobbiamo gli studi sulle fonti per l’edizione critica di Illustrissimi – il suaviter agostiniano «diviene il mot-clé significativamente ricorrente negli scritti (di Giovanni Paolo I) proprio in quanto riflesso dell’animus stesso dell’autore nei confronti dei suoi interlocutori, come disposizione verso di essi». La simpatia di Luciani è un metodo spirituale deliberato, praticato con intelligenza perseverante, credibilmente assunto come filosofia di vita. In Essenza e forme della simpatia (1923), Max Scheler aveva chiarito il ruolo privilegiato che questa assume nella costruzione di un’esperienza comune eticamente qualificata. La simpatia è una forma di ospitalità, di partecipazione, di risposta responsabile all’altro, di condivisione di destini. Per riprendere le parole di papa Francesco, essa in questo modo si distanzia dal «moralismo che giudica» e si fa prossima alla «misericordia che abbraccia». Ricorre coraggiosamente al «co-sentire» come legante della comunione possibile nel polifonico e differenziato orizzonte delle culture e delle relazioni.
È qui, credo, che va inscritto l’inventivo ricorrere di Luciani alla letteratura. È una scelta che agli occhi di molti sarà suonata come insolita, per non dire stravagante. Questo ben traspare, per esempio, nella lettera indirizzata a Gesù che conclude il volume: «Caro Gesù, mi sono preso delle critiche. “È vescovo, è cardinale – è stato detto –; si è sbracciato a scrivere lettere in tutte le direzioni: a M. Twain, a Péguy, a Casella, a Penelope, a Dickens, a Marlowe, a Goldoni e non si sa a quanti altri. E neppure una riga a Gesù Cristo». Chiaramente, questo ultimo «neppure una riga a Gesù Cristo» è da leggersi con grande ironia. Illustrissimi è un testo cristianissimo, sostenuto da passi biblici decisivi, ricamato di citazioni dei Padri della Chiesa, di filosofi e maestri spirituali cristiani. Ma il futuro Giovanni Paolo I ha la lucida coscienza che una delle sfide fondamentali lanciata alla Chiesa contemporanea è di natura culturale. Quando scrive «l’epoca attuale, religiosamente debole, va presa con metodo adatto», sta emettendo una certa diagnosi e al tempo stesso arrischiando vie nuove, con freschezza, giovinezza e audacia. Per questo non si lascia addolorare da quella che, nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 50), papa Francesco dice essere una delle patologie del presente: «un “eccesso diagnostico”, che non sempre è accompagnato da proposte risolutive e realmente applicabili».
Cos’è il compito del cristianesimo dopo la frattura della modernità? Lo ribadisce Luciani nella lettera a Gilbert K. Chesterton: è urgente inginocchiarsi non davanti a quel Dio che «dalla secolarizzazione viene chiamato “morto”», ma «davanti a un Dio più attuale che mai». Questo però richiede la saggezza di capire come il «punto di vista» si sia culturalmente complessificato. È perciò una responsabilità gravissima della Chiesa riattivarne processi culturali che sfocino nella creazione di codici e chiavi di lettura ermeneuticamente consistenti e vitali. Per questo abbiamo bisogno della letteratura, non come di un ornamento gradevole ma tutto sommato superfluo, bensì come di una struttura portante del nostro stare al mondo e della irrinunciabile responsabilità che il cristianesimo porta, como sosteneva Luciani, di «far riflettere!».
In questa prospettiva, non è strano che Albino Luciani sia un vescovo, e poi un papa, «che cita Mark Twain!». Non è uno sminuimento il suo mettersi a scrivere lettere a Pinocchio o ai Quattro del Circolo Picwick. Né deve sconcertarci l’incisivo commento che dalle pagine del “Corriere della Sera” il critico letterario Carlo Bo fa a Illustrissimi, accostando Luciani «più a Goldoni che a Manzoni», poiché non si tratta di una diserzione, ma di un’utilissima estensione di campo.
Un elemento curioso della storia editoriale è che quello stesso anno, il 1976, furono pubblicati due singolari epistolari: Illustrissimi. Lettere del Patriarca di Albino Luciani, e Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini. Li accomuna l’essere entrambi una straordinaria sorta di sismografo. Pasolini metteva in guardia dalla svolta antropologica promossa dalla società dei consumi e portata a termine dallo spietato sbancamento messo in opera dai suoi processi sociali e culturali di omologazione. Quello di Pasolini è un libro-denuncia. In un certo senso fa risaltare l’originalità del libro di Luciani, che non si sottrae a una lettura critica della realtà, ma inquadrandola in un orizzonte differente, necessariamente dilatato, sorprendentemente convocato alla redenzione, poiché Dio non desiste dal cercare l’Essere Umano. Nella visione del beato Giovanni Paolo I è sempre possibile ritornare a Lui, perché il suo è «un convito sempre imbandito e aperto a tutti».
Nella sua definizione di “classici”, Italo Calvino scrive che «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». È questo, senz’ombra di dubbio, il caso di Illustrissimi. Ben merita che se ne nutrano nuove generazioni di lettori.