Francesca Sabatinelli e Isabella Piro – Città del Vaticano
“Una situazione umanitaria terribile”: così il vescovo Tesfaselassie Medhin, dell’Eparchia di Adigrat, in Etiopia, descrive in una lettera riportata dall’agenzia cattolica Aci Africa, le drammatiche conseguenze del conflitto nella regione del Tigray dove, dal 4 novembre 2020, sono divampate violente tensioni tra il governo di Addis Abeba del premier Abiyi Ahmed e le autorità locali. All’origine degli scontri vi è un pressante attacco perpetrato dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray contro l’esercito nazionale di stanza nella zona. “È una realtà quotidiana – afferma monsignor Medhin – sentire di gente che muore per la guerra, per la fame, per la mancanza di medicinali, mentre milioni di donne e bambini sono costretti a fuggire dalle loro case in cerca di sicurezza e salvezza”.
La preoccupazione dell’Unhcr
La crisi umanitaria “non ha risparmiato i rifugiati” che, dalla vicina Eritrea, hanno cercato una nuova vita nel Tigray e che ora “sono rimasti senza cibo né acqua e non hanno accesso ai servizi essenziali come un alloggio o le cure mediche”. Proprio verso di loro è rivolta l’attenzione di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che denuncia il mancato accesso dell’Unhcr ai campi rifugiati di Shimelba e Hitsats. “Sono molto preoccupato per la sicurezza e il benessere dei rifugiati eritrei in quei campi – spiega Grandi – sono rimasti senza aiuti per molte settimane”. Ciò che è più preoccupante, continua Grandi, sono i molti resoconti “affidabili e di prima mano, sulla continua insicurezza e sulle accuse di gravi e dolorose violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi, rapimenti mirati e rimpatri forzati dei rifugiati in Eritrea”. Inoltre, prosegue l’Alto Commissario, “le segnalazioni di ulteriori incursioni militari negli ultimi 10 giorni sono coerenti con le immagini satellitari open source che mostrano nuovi incendi e altri segni recenti di distruzione nei due campi. Si tratta di indizi concreti di gravi violazioni del diritto internazionale”.
Serve un’immediata risposta umanitaria
Il vescovo Medhin sollecita “una risposta umanitaria urgente, vitale, per salvare milioni di persone in gravi condizioni”. “La Chiesa – sottolinea inoltre – a livello nazionale e diocesano, insieme ai religiosi che operano nella regione del Tigray, è pronta ad operare per rispondere all’emergenza provocata dalla guerra”. “Vi imploro – conclude il presule – ricordatevi di noi nelle vostre preghiere”. “L’impossibilità di assistere migliaia di rifugiati eritrei che continuano a fuggire dai campi in cerca di sicurezza e sostegno” è ciò che angoscia l’Unhcr, afferma ancora Grandi, “l’avvenuto accesso ai campi di Mai Aini e Adi Harush è un buon inizio”, ma l’appello delle Nazioni Unite è sempre quello di un accesso completo e senza ostacoli.
La voce delle realtà cattoliche
Accanto alla voce di Filippo Grandi e a quella di monsignor Medhin si trovano quelle di molti organismi ecclesiali, tutti invocano pace e riconciliazione nel Tigray. A novembre, subito dopo l’esplosione del conflitto, la Conferenza episcopale cattolica dell’Etiopia aveva chiesto alle parti in causa di porre fine agli scontri. Poco dopo, i vescovi dell’Eritrea, nonché l’Associazione dei membri delle Conferenze episcopali dell’Africa Orientale, avevano espresso la loro solidarietà alla popolazione. Forte, inoltre, l’appello del Secam (Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar) per un cessate-il-fuoco immediato, mentre il Consiglio mondiale delle Chiese aveva pregato “per la fine del conflitto, per il ritorno sicuro degli sfollati e per un processo di riconciliazione inclusivo che porti a una pace sostenibile per tutti in Etiopia”.
Gli appelli di Papa Francesco
Da ricordare l’esortazione lanciata dal Papa, all’Angelus dell’8 novembre: “Seguo con preoccupazione le notizie che giungono dall’Etiopia – furono le sue parole – mentre esorto a respingere la tentazione dello scontro armato, invito tutti alla preghiera e al rispetto fraterno, al dialogo e alla ricomposizione pacifica delle discordie”. Un appello reiterato anche il giorno di Natale, nel Messaggio Urbi et Orbi, quando Francesco invocò il Divino Bambino per la cessazione delle “violenze in Etiopia, dove, a causa degli scontri, molte persone sono costrette a fuggire”.
I rischi per il resto della regione
La domanda che molti osservatori internazionali si pongono è se c’è il rischio che possano essere coinvolti nel conflitto interessi anche di altre potenze regionali, come ad esempio l’Egitto. A rispondere al microfono di Stefano Leszczynski è Luca Puddu, storico e africanista, esperto della situazione in Tigray e ricercatore presso l’Università Federico II di Napoli, per il quale l’Egitto “guarda con favore al deterioramento dei rapporti, ad esempio tra Etiopia e Sudan, in parte perché spera di portare Khartum sulla propria posizione nei negoziati in corso sul progetto della grande Diga della Rinascita etiope, in parte perché l’indebolimento della posizione del premier Abiyi Ahmed è funzionale a rendere il primo ministro più malleabile al tavolo delle trattative”. Di qui la possibilità, fortemente concreta, che “la frontiera occidentale tra Etiopia e Sudan rimanga uno dei punti caldi della regione”, per i prossimi mesi se non addirittura anni, considerando che quel confine è da ritenersi “un’area ideale per quei gruppi armati che vogliono sfruttare il confine internazionale per portare attacchi in territorio etiopico”.
Lontana la possibilità di un coinvolgimento dell’Onu
Di certo al momento, sempre secondo Puddu, sembra essere molto remota la possibilità di un coinvolgimento diretto della comunità internazionale, soprattutto per quanto riguarda la creazione di una commissione indipendente per valutare le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto umanitario in questo conflitto. “L’Etiopia, spiega lo studioso, è un Paese che storicamente ha sempre guardato con sospetto a ingerenze internazionali nelle questioni di politica interna, l’approccio utilizzato dal primo ministro Abiyi Ahmed, durante le settimane del conflitto nel Tigray, conferma questa tendenza”. Inoltre, è la conclusione di Puddu, il fatto che l’Unione africana abbia sottolineato e riconosciuto “la natura interna del conflitto nel Tigray, rende la possibilità di un coinvolgimento delle Nazioni Unite, per appurare eventuali responsabilità, assolutamente remota e per il momento non realizzabile”.