Taizé, il prossimo priore: una comunità monastica sempre più sinodale

Vatican News

Su L’Osservatore Romano un’ampia intervista a fratel Matthew che dal 3 dicembre assumerà l’incarico di responsabile della comunità francese

di Charles de Pechpeyrou

La vita monastica, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, la sinodalità e i metodi di governo nella Chiesa, il raduno Together in Vaticano e il prossimo incontro europeo a Lubiana: tanti i temi affrontati nell’intervista rilasciata da  fratel Matthew al nostro giornale. Dal 3 dicembre, Domenica 1 di Avvento, il monaco britannico di confessione anglicana sostituirà fratel Alois come priore della comunità ecumenica di Taizé, della quale fa parte dal 1986.

Perché e come è entrato a far parte della comunità di Taizé?

Sono cresciuto in una famiglia anglicana praticante e ho sempre frequentato la chiesa da bambino e da adolescente. Ma è stato all’Università di Sheffield, dove studiavo medicina, che ho incontrato per la prima volta giovani della mia età provenienti da fedi diverse che cercavano di capire cosa significasse veramente seguire Cristo. Questo è stato molto importante per me. Un mio compagno di classe mi ha parlato di Taizé, dove era andato, e con un gruppo di amici abbiamo deciso di trascorrere lì la prima parte delle vacanze estive universitarie: una settimana di incontri e un’altra di silenzio. Siamo stati così segnati che al nostro ritorno in Inghilterra abbiamo deciso di formare una comunità tra studenti: eravamo sei giovani di fedi diverse determinati a vivere l’unità attraverso la preghiera comune, l’accoglienza di studenti stranieri e la condivisione dei nostri soldi. Qualche mese dopo ho avuto un po’ di tempo libero e sono tornato a Taizé per un mese come volontario.

Cosa ha trovato lì da convincerla a seguire una nuova strada?

Mi ha molto colpito vedere fratelli di fedi diverse che vivevano l’appello all’unità di Gesù riportato in Giovanni, 17 senza pretendere di avere tutte le risposte, e che vivevano di questa preghiera. A Taizé mi è sembrato che Cristo mi dicesse «vieni e seguimi»; così ho chiesto ai fratelli se potevo rimanere ancora un po’. Mi sono concesso un anno di pausa e dopo qualche mese era come se non ci fosse più altra scelta: dovevo correre il rischio per Cristo, per il Vangelo. Sono entrato nella comunità nel 1986. Per i miei genitori accettare questa decisione non è stato facile ma sapevo che una volta arrivati a Taizé avrebbero capito. Così è stato e da allora mi hanno supportato molto.

Qual è stato il suo percorso all’interno della comunità?

All’epoca il tempo di formazione era piuttosto breve, tre anni, e terminata la formazione sono entrato a far parte definitivamente della comunità. Ben presto mi è stato affidato l’incarico di accoglienza: dovevo accompagnare i volontari e i ragazzi che sceglievano di fare una settimana di ritiro nel silenzio, per poi essere inoltre incaricato di sostenere i nuovi fratelli. E questa è diventata la mia attività principale. Ho viaggiato molto, in particolare in Russia dal 1993, ogni anno fino alla pandemia, e in Australia per vedere la mia famiglia. Ma un momento molto importante è stata la visita ai nostri fratelli che vivono in Bangladesh nel 2004. Vivere immersi in una cultura completamente diversa e in un Paese dove la Chiesa è molto minoritaria ha rappresentato un vero capovolgimento nella mia vita. Sono cresciuto in una città nel nord dell’Inghilterra, Bradford, dove c’era una grande comunità originaria del Kashmir e del Bangladesh. Andando in Bangladesh, ex colonia britannica, anni dopo, è toccato a me avere un colore di pelle diverso dalla maggior parte delle persone, appartenere a una minoranza religiosa; così mi sono reso conto della difficile transizione interiore che questi individui avevano vissuto per adattarsi alla vita in Inghilterra. In Bangladesh i cristiani sono pochi ma hanno tuttavia qualcosa da offrire alla società, nell’istruzione e nella sanità. Pur essendo in una situazione di debolezza, di fragilità, riescono a offrire qualcosa, a essere come lievito nella pasta, e questo lo trovo molto potente.

Guardiamo al futuro: come immagina il suo ruolo da priore?

Innanzitutto devo dire che provo un’immensa gratitudine per il ministero di fratel Alois. Non intendo fare qualcosa di nuovo ma continuare sulla strada da lui tracciata. Per me l’importante non è tanto fare progetti ma ascoltare cosa dice lo Spirito santo, cosa dice la comunità, cosa chiediamo alla società e alla Chiesa attraverso le persone che incrociamo sul nostro cammino. Il priore è descritto nella nostra Regola come servitore della comunione: è un ministero di unità. La comunità sta vivendo un momento importante: già una quindicina di fratelli non hanno conosciuto fratel Roger, il ricambio generazionale è evidente. Stiamo anche attraversando un periodo di cambiamento nella Chiesa, in particolare con il processo sinodale. A Taizé cerchiamo di andare verso una maggiore condivisione delle responsabilità, verso un maggiore ascolto reciproco affinché tutti i fratelli si sentano coinvolti nel governo. Siamo in una fase di crescente libertà di parola tra i fratelli e si formano gruppi di lavoro che riflettono su questioni importanti. Il priore, pur rimanendo libero per le decisioni che gli sembrano importanti, è lì per confermare la comunità nelle idee che nascono attraverso l’ascolto reciproco. Non tutto deve venire da lui. Non è solo ma affiancato da consiglieri.

Lei è il primo priore di Taizé di fede anglicana. Che esperienza può portare alla comunità?

La Comunione anglicana oggi riunisce qualcosa di molto ampio, con tante tendenze, a volte molto diverse. Vorremmo che questa Comunione rimanesse unita ma attualmente è minacciata. Per me è soprattutto questo: il desiderio di stare insieme, che ha la precedenza e che fa parte della mia eredità anglicana. Allo stesso tempo dobbiamo ascoltare le paure e le ansie di tutti e prenderle sul serio. Se qualcuno ha una preoccupazione, un motivo c’è, va preso in considerazione, anche a costo di non “andare avanti” così velocemente come vorremmo, poiché si tratta di camminare insieme, mantenere l’unità o indicare una soluzione provvisoria e poi tornare sulla questione. E poi agli anglicani piace cantare, abbiamo una bellissima tradizione di inni, ed è qualcosa che ho ritrovato a Taizé, che mi ha attratto fin dall’inizio. Ho parlato prima della chiamata interiore che ho sentito, ma ha significato molto anche l’accoglienza da parte di una comunità per la quale il canto è fondamentale. Oggi il nostro repertorio è conosciuto in tutto il mondo; questi brani non sono solo nostri e questa è la migliore ricompensa.

Durante la messa di apertura del Sinodo, il Papa ha invitato i fedeli a imitare san Francesco d’Assisi che in un tempo di grandi divisioni — anche all’interno della stessa Chiesa — non ha criticato nessuno, «imbracciando solo le armi del Vangelo, cioè l’umiltà e l’unità, la preghiera e la carità». Cosa le ispira questo appello?

Questa frase è molto vera: non si tratta di denunciare o giudicare ma di camminare insieme. Mi ricorda anche il nostro fondatore che a volte soffriva per i problemi che affliggevano la Chiesa ma non parlava mai male degli altri. Che senso ha rinchiudersi nella durezza? Cristo era mite e umile di cuore. Dobbiamo stare attenti a non lasciarci condurre lungo sentieri che portano alla durezza, ma cercare quelli che portano alla dolcezza. Questo è un criterio di discernimento molto importante: chiedersi cosa viene dallo Spirito e cosa viene da altrove. D’altro canto sono convinto che, anche se abbiamo opinioni completamente opposte, possiamo camminare insieme. Questo è quello che ho constatato a Praga per la fase continentale europea del Sinodo: una grande diversità tra le Chiese del vecchio continente che tuttavia sono riuscite a raggiungere un risultato comune.

Parlando del Sinodo, il Papa ha detto più volte che non si trattava di un Parlamento, ma di un luogo di ascolto e comunione. Questa definizione potrebbe applicarsi alla comunità di Taizé?

Assolutamente sì. E questo è qualcosa che fratel Alois ha avviato negli ultimi anni: una maggiore condivisione in piccoli gruppi tra fratelli, non per discutere, per così dire, ma per ascoltarsi a vicenda. Non si tratta di cadere in uno spirito di parte, ma di chiedersi: cosa vuole dirmi Dio attraverso l’altro, quale dono posso ricevere dall’ascolto del mio prossimo? Ciò per dare voce a chi non si esprime facilmente: i più giovani, i più fragili. Questo deve essere il cammino di ogni comunità cristiana, che sia nella Chiesa in generale o nelle comunità come la nostra. Stiamo passando da un modello di governo verticale a qualcosa di più orizzontale, basato sul modello della koinonia, la comunione vissuta dai primi cristiani.

Come valutare l’iniziativa “Together – Raduno del popolo di Dio” nella quale lei si è impegnato in prima persona? Quali lezioni possiamo trarne per il futuro?

Vorrei innanzitutto esprimere la mia grande gratitudine a tutti i partner che si sono impegnati in questa iniziativa perché la preparazione ha richiesto molto lavoro — è stato un vero e proprio approccio sinodale — e a Papa Francesco  presente il 30 settembre fin dal pomeriggio alla veglia ecumenica in piazza San Pietro. Era seduto all’altezza del popolo, rivolto verso la croce di san Damiano, verso la Parola di Dio, verso l’icona della Salus populi romani: è stato un momento molto forte. Possiamo davvero rallegrarci che così tanti leader di diverse Chiese abbiano risposto a questa chiamata del Papa a venire a pregare per la Chiesa cattolica e ad affidare i lavori dell’assemblea sinodale allo Spirito santo. Il fatto che abbiano potuto adorare insieme Cristo sulla croce, per impartire una benedizione comune, è inestimabile. Forse siamo abituati a vedere ortodossi e anglicani insieme al Papa, ma vedere anche pentecostali, battisti, valdesi, luterani, assiri tutti insieme in piazza San Pietro è stato importante. Bisogna riflettere su questo, anche a livello teologico, perché è un precedente, abbiamo vissuto un momento storico che non va minimizzato. Non dimentichiamo che quel giorno sono state organizzate centinaia di preghiere in tutto il mondo, in comunione con quanto accaduto a Roma. Vorremmo chiedere a tutte queste persone riunite come intendono, a livello locale, continuare il cammino sinodale ed ecumenico.

Perché la comunità di Taizé ha scelto di organizzare il prossimo incontro europeo a Lubiana, in Slovenia? Che messaggio possono dare i giovani quando l’unità dell’Europa è sotto attacco a causa delle divergenze in materia di politica estera, economia e gestione dei flussi migratori?

Lubiana è una città crocevia dell’Europa, tra ovest ed est, nord e sud. È anche una città molto importante per la nostra comunità perché dagli anni ’80 molti sloveni sono venuti a Taizé. Inoltre nel 1987 abbiamo organizzato lì il nostro primo incontro Est-Ovest. Allora la Jugoslavia si trovava in una posizione intermedia tra i due blocchi: i fratelli lo capirono e i giovani dei paesi dell’Europa orientale e di quella occidentale ebbero allora l’occasione di incontrarsi a Lubiana. Oggi l’Europa sta attraversando ancora una volta un’era dove le divisioni tra nazioni si stanno rafforzando e questo incontro ci ispirerà sicuramente a trovare modi per mantenere l’unità. Tali temi verranno trattati durante i gruppi di lavoro ma soprattutto lasceremo parlare gli attori locali affinché possano condividere la propria esperienza. I giovani che riceviamo a Taizé ci raccontano la loro preoccupazione per questa situazione in Europa, per la crisi dei migranti e il riscaldamento globale. Sono tutte preoccupazioni che dobbiamo accompagnare, tenendo presente che il Vangelo ci dice sempre che la sofferenza non avrà mai l’ultima parola. Dobbiamo conservare questa fede in Cristo crocifisso ma risorto: c’è una speranza che si rinnova, che non è una meta lontana, irraggiungibile, né una spiritualità disincarnata, ma che ci permette di affrontare la realtà. Come cristiani non siamo né pessimisti né ottimisti, ma realisti.