L’incontro nella cattedrale di Santa Teresa a Giuba con i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate e i seminaristi apre la seconda giornata del Papa nella nazione africana: siate pastori misericordiosi e non capi tribù, profeti di vicinanza e non all’inseguimento del prestigio religioso e sociale
Adriana Masotti – Città del Vaticano
Nel discorso ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate e ai seminaristi nella Cattedrale di Santa Teresa a Giuba, Papa Francesco riprende l’immagine delle acque del fiume Nilo che attraversa il Paese, a cui già ieri si era ispirato parlando alle autorità sud sudanesi, e ripercorre la figura di Mosè per cogliere alcune indicazioni utili per quanti sono chiamati a essere Pastori in questa terra: “Mosè col bastone in mano, Mosè con le mani protese, Mosè con le mani alzate”. E’ un richiamo, quello di Francesco, alla responsabilità di corrispondere alla chiamata di Dio ad essere “strumenti di salvezza” per il popolo, non distogliendo lo sguardo dalle sue sofferenze e facendosi presenza profetica in mezzo alla sua storia.
Nelle acque del Nilo le lacrime di un popolo
“Da tanto coltivavo il desiderio di incontrarvi; per questo oggi vorrei ringraziare il Signore”, sono le prime parole di Francesco dopo aver ascoltato le testimonianze di un sacerdote e di una religiosa. In circa 5.000 i fedeli presenti, un migliaio all’interno della cattedrale, gli altri all’esterno. Dicendo di voler guardare alle acque del Nilo secondo la prospettiva biblica che spesso associa l’acqua all’azione di Dio a favore del suo popolo, il Papa osserva poi che in queste acque oggi “si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza”.
Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità, il grido di dolore di tante vite spezzate, il dramma di un popolo in fuga, l’afflizione del cuore delle donne e la paura impressa negli occhi dei bambini. Allo stesso tempo, però, le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli.
Chiamati ad essere strumenti docili nelle mani di Dio
Papa Francesco invita a chiedersi “che cosa significa essere ministri di Dio” in una storia attraversata dalla guerra e dalla povertà, dove “i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore?” e propone alla riflessione di quanti lo ascoltano due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. Mosè è stato docile all’iniziativa di Dio, afferma il Papa, ma non da subito. Scoperta la sua identità e colpito dalla sofferenza del suo popolo, Mosè decide “di fare giustizia da solo” uccidendo un egiziano. Ma poi sperimenta il fallimento e “una sorta di deserto interiore”. Aveva contato solo sulle sue forze e aveva risposto alla violenza con altrettanta violenza. Francesco commenta:
A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi e seminaristi: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere. Invece, la nostra opera viene da Dio: Lui è il Signore e noi siamo chiamati a essere docili strumenti nelle sue mani.
Non capi tribù, ma Pastori misericordiosi
Più tardi, nell’incontro con Dio che si manifesta nel roveto ardente Mosè capisce il suo errore e si lascia “attrarre e orientare da Lui”. E’ la docilità, afferma Francesco, che ci fa vivere “in modo rinnovato il Ministero”, dove al centro non c’è la propria volontà, ma la Parola del Signore.
Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma la comunità dei figli di Dio.
Intercedere è mettersi in mezzo alla storia
Dalla figura di Mosè, il Papa, accanto alla docilità, sottolinea l’atteggiamento dell’intercessione, spiegando che Intercedere non significa solo “pregare per qualcuno”, ma anche mettersi “nel mezzo ad una situazione”. Mosè, infatti, si mette dentro alla storia del suo popolo e si fa ponte tra Dio e la sua gente. Il Papa spiega:
Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”: in mezzo alle sofferenze e alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici.
Non restare neutrali davanti al dolore e alle ingiustizie
Il Papa torna alla figura di Mosè che intercede per il popolo e dice che la Bibbia lo presenta in tre atteggiamenti: “col bastone in mano, con le mani protese, con le mani alzate al cielo”. Nella prima immagine Mosè intercede con la profezia, compiendo prodigi. E’ un insegnamento per l’oggi della Chiesa che deve guardarsi dalla tentazione “di lasciare le cose come stanno” per timore “di perdere privilegi e convenienze”.
Fratelli e sorelle, per intercedere a favore del nostro popolo siamo chiamati anche noi ad alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti. Se vogliamo essere Pastori che intercedono, non possiamo restare neutrali dinanzi al dolore provocato dalle ingiustizie e dalle violenze perché, là dove una donna o un uomo vengono feriti nei loro diritti fondamentali, Cristo è offeso.
Tendere le mani per rialzare i fratelli
Mosè con le mani protese è segno della “vicinanza di Dio che è all’opera”, che incoraggia e accompagna e questo ha fatto Mosè per quarant’anni anche in mezzo a difficoltà fuori e dentro di sé. Francesco prosegue:
Anche noi abbiamo questo compito: tendere le mani, rialzare i fratelli, ricordare loro che Dio è fedele alle sue promesse, esortarli ad andare avanti. Le nostre mani sono state “unte di Spirito” non solo per i sacri riti, ma per incoraggiare, aiutare, accompagnare le persone ad uscire da ciò che le paralizza, le chiude, le rende timorose.
Il dono della vita di tanti uomini e donne missionari
Infine, le mani di Mosè alzate in cielo dicono quanto a Mosè stesse a cuore il destino del suo popolo che sostiene con la preghiera, una vera lotta con Dio, a volte, perché il Signore perdoni Israele e continui a stargli vicino. Papa Francesco torna alla domanda iniziale cioè a come vivere il ministero in questa terra e afferma che essere profeti, accompagnatori, intercessori, può richiedere la vita stessa.
Tanti sacerdoti, religiose e religiosi (…) sono rimasti vittime di violenze e attentati in cui hanno perso la vita. In realtà, l’esistenza l’hanno offerta per la causa del Vangelo e la loro vicinanza ai fratelli e alle sorelle è una testimonianza meravigliosa che ci lasciano e che ci invita a portare avanti il loro cammino.
Ricordando che san Daniele Comboni, qui missionario, diceva che “c’è bisogno di anime ardite e generose che sappiano patire e morire per l’Africa”, Francesco conclude il suo discorso augurando ai presenti all’incontro di essere “Pastori e testimoni generosi”, “profeti di vicinanza” e intercessori per il popolo “con le braccia alzate”.