Strage di Natale in Myanmar, Bo: le armi non risolvono la crisi

Vatican News

Gabriella Ceraso e Tiziana Campisi – Città del Vaticano

Arriva la dura condanna del cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, per il massacro nel villaggio di Mo So, a Hpruso, nello Stato di Kayah, nel Myanmar, di almeno 35 persone – per lo più donne e bambini – ritrovate, il giorno di Natale, carbonizzate all’interno di tre veicoli dati alle fiamme. Le foto della strage sono state diffuse sul web. Media locali riferiscono che truppe governative birmane, su ordine della giunta militare al potere nel Paese, avrebbero radunato e ucciso i civili a colpi di arma da fuoco per poi caricarli su camion e auto successivamente incendiati. Fra i morti ci sarebbero anche due operatori di Save the Children, dati per dispersi. Secondo alcuni testimoni le vittime erano fuggite dai combattimenti tra gruppi di resistenza armata e l’esercito del Myanmar vicino al villaggio di Koi Ngan, e sarebbero state fermate dalle truppe governative mentre si dirigevano verso i campi profughi nella parte occidentale di Hpruso.

La preghiera del cardinale Bo per le vittime

In una dichiarazione pubblicata il 26 dicembre, il porporato, definisce un “indicibile e spregevole atto di barbarie disumano” l’attacco e assicura la sua preghiera per le vittime e i loro cari. “L’intero nostro amato Myanmar è ora una zona di guerra” afferma il cardinale Bo facendo riferimento anche agli attacchi aerei nello Stato di Kayin che hanno costretto migliaia di persone a fuggire oltre il confine con la Thailandia e ai bombardamenti a Thantlang, nello Stato di Chin. “Quando finirà tutto questo? – si interroga il porporato -.  Quando cesseranno decenni di guerra civile in Myanmar? Quando potremo godere della vera pace, con giustizia e vera libertà?  Quando smetteremo di ucciderci l’un l’altro? Fratelli che uccidono fratelli, sorelle che uccidono sorelle: questa non potrà mai e poi mai essere una soluzione ai nostri problemi. Pistole e armi non sono la risposta”.

L’appello a deporre armi

Il cardinale quindi lancia un appello a deporre le armi ed esorta l’esercito del Myanmar, il Tatmadaw, a porre fine ai bombardamenti, domanda che si smetta di distruggere case, chiese, scuole e cliniche, e invita al un dialogo con il movimento democratico e i gruppi armati etnici. “Chiedo inoltre ai gruppi armati e alla Forza di difesa del popolo (PDF) – aggiunge – di riconoscere che le armi da fuoco non risolvono la crisi ma piuttosto la perpetuano, causando più morti e più fame, con conseguenze devastanti per l’istruzione dei nostri figli, per la nostra economia e la nostra salute”. Il cardinale Bo definisce la guerra inaccettabile, afferma che “la soluzione e la ricerca della pace è dentro di noi e tra noi” e chiede alla comunità internazionale preghiere, solidarietà, assistenza umanitaria e sforzi diplomatici per aiutare il Myanmar a porre fine ai tragici conflitti e a cercare giustizia e pace. “Prego dal profondo del mio cuore per la fine delle tragedie che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane e per troppi anni e decenni” insiste l’arcivescovo di Yangon che ricorda il messaggio e la preghiera di Papa Francesco del giorno di Natale per il Medio Oriente, il Myanmar, i numerosi prigionieri di guerra e i civili in carcere per motivi politici, per i migranti, gli sfollati e i rifugiati. 

Le reazioni internazionali e il processo Aung San Suu Kyi

Intanto l’Onu ha chiesto alle autorità birmane un ‘indagine approfondita e trasparente sugli orrori, così il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, Martin Griffiths, ha definito le notizie dell’accaduto, che ritiene credibili. Si tratta dell’ennesimo episodio in una strategia del terrore e della minaccia al dissenso organizzato dalla resistenza armata, che si è instaurata nel Paese in mano ai militari dall’1 febbraio scorso, una escalation di abusi e di violazioni di diritti umani che sembra senza fine, mentre è stato rinviato al 10 gennaio il verdetto atteso per oggi del processo all’ex leader birmana e Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Accusata di importazione illegale e possesso di walkie-talkie e di violazione delle restrizioni Covid, la donna era già stata condannata a due anni di prigione per incitamento al dissenso contro i militari e per non aver osservato le misure anti-Covid.