Sul numero di dicembre del mensile de L’Osservatore Romano, il dramma di una donna posta davanti dal dilemma di salire su un barcone per salvare una figlia dalla certezza di violenze stupri nei campi libici ma dovendo lasciando a terra l’altro figlio di 7 anni
di Nello Scavo
Niente spiega la sorte di una donna migrante come le parole di quella ragazza che un giorno, in un campo di concentramento libico, disse le parole che nessuna donna con un sogno in tasca proferirebbe mai. «Voglio essere brutta, ogni giorno più brutta. Così la smetteranno». Non serve altro per spiegare. I capelli arruffati, i modi sgraziati, lo sguardo sperso in qualche incubo vissuto dal vero. Era il settembre del 2017. Pochi mesi prima una delegazione libica era arrivata segretamente in Italia per negoziare il prezzo di quelle parole; trattenere i migranti nei campi di prigionia, quelli che Papa Francesco avrebbe chiamato “lager”.
Mentre quella ragazza spazzava via la poltiglia di sabbia e petrolio, raccontava una storia. Quella di Rodha, partita come lei adolescente dalla Nigeria, da dove le dune diventano erbacce e sassi e le milizie di Boko Haram si contendono quello che c’è sotto, e che a noi serve, ad esempio per raccontare questa storia e spingere la velocità dei processori con cui le nostre comunicazioni viaggiano. Rhoda non ne poté più di quelle notti data in trofeo alla soldataglia degli scafisti. E la fece finita prima che la prendessero ancora.
A un’altra latitudine, la cronaca ci portava su altre rotte e altre storie. La trappola dei Balcani per i fuggiaschi delle guerre d’Oriente. Se l’amica di Rhoda voleva quasi dimenticarsi d’essere donna, qui invece c’era chi al contrario vedeva nella femminilità l’appiglio per non lasciar prevalere la malasorte. Come Aisha, 25 anni e una laurea in legge a Damasco. Era una mattina di foschia, tra Serbia e Ungheria. «Siamo in troppi, non possono tenerci qui. È questione di tempo», diceva assicurandosi che sul taccuino dei giornalisti venisse riportata ogni parola. Avrebbe voluto fumare, ma aveva barattato l’ultimo pacchetto di sigarette con dello smalto color cipria e un rossetto a cui non voleva rinunciare. «Quello che avevo è agli sgoccioli e al mio aspetto non ci rinuncio», disse. In mezzo a gente che non faceva più una doccia da giorni, quello di Aisha non suonava come il capriccio di una ragazza viziata. Ogni volta che le sue labbra tornavano rosse, ogni volta che con la mano sinistra tornava a prendersi cura del suo volto, svelta e agile senza neanche bisogno di uno specchio, Aisha ricordava a tutte e a tutti, maschi compresi, che quell’odissea era solo una parentesi. Che niente avrebbe potuto farla diventare quello che non era.
Dal giorno in cui la ragazza dalla pelle scura e sporca disse di voler essere brutta, in Libia le cose non sono cambiate. Il blasfemo jihad degli stupratori libici si compie ogni sera, dopo che le autobotti dei contrabbandieri tornano indietro. «Allah Akbar», urlano mentre torturano gli uomini e assaltano le donne. Accanto alla vittima mettono un telefono mentre picchiano più duro, così che i malcapitati implorino pietà e altri soldi dai parenti rimasti nei villaggi. Delle volte sono i figli a fare forza alle madri. Donne che compiono scelte che molti non approvano. Ma bisogna mettersi nei sandali rotti di una migrante con figli al seguito per provare almeno a capire.
Separarsi per provare a salvarsi. Come la mamma di Juniò, il gemellino di sette anni che in Libia ha dovuto farsi forte. Lo era ogni volta che doveva mettersi in posa per farsi scattare una foto da inviare alla mamma nel frattempo giunta in Italia su un barcone. Juniò sorrideva e la rassicurava. A sette anni doveva dimostrare di saper mantenere le promesse. La prima: non si sarebbe fatto vincere dal più straziante degli abbandoni. La mamma non aveva mai perso la speranza. Diceva di conoscere quel suo ragazzo, che seppur bambino Juniò non era tipo da darla vinta ai cattivi. Lì a Zawyah, le autorità internazionali stavano facendo il possibile per aiutarlo e riuscire a tirarlo fuori. Unhcr-Acnur, Oim, erano finalmente riuscite a rintracciarlo in un casolare non lontano dal centro di prigionia ufficiale, quello del guardacoste-trafficante “Bija” e di suo cugino Osama, i padroni della vita e della morte dei migranti internati. Nel pieno degli scontri armati, con violente faide interne alle milizie, Juniò era infatti scomparso. Aveva compreso che non era più un bambino il pomeriggio in cui in Libia gli hanno avevano ammazzato il padre. Aveva capito che doveva essere uomo una sera di primavera, quando la mamma e la sorellina gemella di sette anni lo hanno avevano lasciato a una conoscente ivoriana in un dignitoso tugurio. Partivano per l’Europa, su un gommone. Forse non si sarebbero mai più visti. Nel cuore l’abisso di un dolore che la madre doveva nascondere alla bambina, mentre lo scafista le gettava a forza dentro al canotto sulla spiaggia di Zawyah. L’amica le aveva promesso che non sarebbe salita su un barcone, e che mai ci avrebbe portato Juniò, “junior” ma pronunciato alla francese. Settimane dopo dalla nave umanitaria della Sea Watch una migrante è riuscita a mettersi in contatto con la mamma di Juniò: «Siamo salvi, dicono che ci porteranno in Italia».
Dopo essere sopravvissuti ai campi di prigionia libici, la mamma e i gemellini erano riusciti guadagnarsi la libertà, recandosi a vivere con una ivoriana in un alloggio di fortuna. Nessuna speranza in Libia per le donne di colore. Aggredite per strada, stuprate, imprigionate a forza. Ma lei non voleva ritornare nell’inferno di una delle “Osama prison”, come i migranti chiamano l’inferno gestito dalla milizia al Nasr, quella di Abd al-Rahman Salem Ibrahim alMilad conosciuto come “Bija” e di suo cugino Osama, considerato anche dalla giustizia italiana come il capo torturatore. E la ragazza doveva mantenere la promessa che lei e il marito si erano fatti. Andare in Europa, e piangere, ma finalmente di gioia, lontano dalla fame e dalle armi che anche in Costa d’Avorio li avevano costretti a cercare riparo altrove. In Europa per insegnare ai bambini che si può vivere senza dover temere la lama del machete o dover mentire sul rumore delle armi che arrivava dal villaggio vicino.
«Senza più mio marito dovevo scegliere, non potevamo più restare in Libia e non volevo che tutta la mia famiglia morisse in mare. Qualcuno di noi doveva sopravvivere». E Juniò, maschio di quasi sette anni, era l’unico dei tre che secondo lei avrebbe forse potuto cavarsela. Non la bambina, che laggiù non avrebbe fatto in tempo a diventare ragazza, per finire chissà in quali mani. Non la madre che quella fine l’aveva già vista fare a troppe. «Però se io e mia figlia saremmo morte nel mare, Juniò restando in Libia forse sarebbe almeno vissuto e cresciuto, e un maschio può affrontare meglio quelle difficoltà, e della nostra famiglia sarebbe rimasto qualcosa in questo mondo».
E parole così solo una donna e una madre riesce a pronunciarle senza temere di venire giudicata per essere donna e madre. E migrante.