Storico dell’arte Montanari: riaprire e valorizzare le chiese in abbandono

Vatican News

Antonella Palermo – Città del Vaticano

La densità del suo raccontare è proverbiale. Così come l’ardore e lo studio con cui argomenta le sue ricerche. Lo storico dell’arte Tomaso Montanari – che non cela, nel suo ultimo volume “Chiese chiuse” (Einaudi), di definirsi cattolico praticante, assiduo frequentatore di chiese – ci offre una conversazione ricca di spunti, che fa viaggiare nel tempo e nello spazio.

Ascolta l’intervista a Tomaso Montanari

Quale è il rischio più potente cui sono sottoposte le chiese in Italia e che lei documenta in questo libro?

Il rischio più potente e costante è quello di essere totalmente riassorbite nel nostro tempo e in una logica tutta interna al presente. Vuol dire che sono messe di fronte a un bivio: o andare in rovina e rimanere chiuse perché nessuno sa più bene cosa farsene, oppure diventare oggetti di mercato. Siamo in un’epoca a una sola dimensione in cui sembra che il nostro essere umani conti assai meno del successo, del denaro e dunque ciò che non rende non sembra meritare di sopravvivere. Questa logica binaria è terribile e colpisce i corpi umani ma colpisce anche le chiese che sono quanto di più vicino, io credo, ai corpi umani nella loro espressione vera di umanità. Sono, le chiese, in qualche modo ambasciatrici di un altro tempo, di un altro modo di vedere la vita. La quantità enorme di chiese dove noi non possiamo entrare prelude a ciò che succede dietro quelle porte: o un decadimento sempre più diffuso o chiese trasformate in tutt’altro e sottoposte a una sostanziale mercificazione. Io ho insegnato per dieci anni a Napoli – che per certi versi è l’epicentro di questo fenomeno in Italia – e ho visto centinaia di meravigliose chiese monumentali, importantissime dal punto di vista storico e artistico, chiuse, saccheggiate o in rovina. 

Ma quale è la ragione pratica che secondo lei ha portato a questa degenerazione?

Naturalmente all’origine c’è un problema di contrazione della pratica religiosa, di diminuzione delle comunità, di minori necessità di luoghi sacri. In Italia esistono circa 95mila chiese, delle quali 85mila sono storiche, antiche, beni culturali: un grande numero che rispondeva al grande esercizio della pietà popolare in questo Paese. Ma questo è solo una parte della spiegazione perché le chiese in Italia sono inscindibilmente monumenti civili e monumenti religiosi, luoghi dove, per esempio, dormono i nostri avi; sono luoghi pubblici. Una tradizione che per esempio sorprendeva i Protestanti in Italia, nel ‘600, era che fossero aperte a tutti, non solo ai cattolici. Si potrebbe dire, in qualche modo, che le chiese sono piazze coperte. Quindi, c’è una doppia crisi: da una parte quella della pratica religiosa, ma dall’altra lo smarrimento di un senso di collettività, di comunità civile. E’ la nostra solitudine, il nostro individualismo, lo smontaggio di una idea plurale, è il passaggio dal noi all’io che rende le chiese luoghi di cui non sappiamo più che cosa farcene. Ma, paradossalmente, proprio per questo sono luoghi di cui abbiamo estremo bisognosul piano esistenziale.

Quando lei ha cominciato ad amare le chiese?

Da bambino. Io sono di una famiglia cattolica e sono cattolico e, devo dire, io ho scritto questo libro esplicitando questa mia essenza, perché ho ritenuto di dover dire subito al lettore in chiaro che ho scritto come storico dell’arte, che frequenta le chiese storiche per studio o per lavoro, ma anche da cittadino della Repubblica che tiene allo spazio pubblico, e da cristiano che da piccolo è cresciuto nelle chiese storiche della sua città. Ci sono delle pagine del libro dedicate alla chiesa a cui sono stato più legato, la grande basilica domenicana di Santa Maria Novella. Sono state esperienze fondamentali: io credo di aver scelto di fare lo storico dell’arte proprio in virtù del legame profondo con le chiese, molto più che con i musei, senza nulla togliere ai musei.

Infatti lei dice che quando ha un momento di pausa e si trova in una città preferisce entrare in una chiesa piuttosto che in un museo…

Perché le chiese sono luoghi dove le opere d’arte ti sorprendono, ti aggrediscono come gli animali nella foresta, nel loro habitat naturale. Sono luoghi vivi dove ci sono ancora veri tutti i nessi di significato, ci sono i corpi dei committenti che hanno pagato perché quelle opere vegliassero sulla loro attesa di resurrezione; ci sono ancora tutti quegli oggetti, quei simboli che connettono le opere d’arte al loro senso, che è anche un senso che trascende i tempi e li incatena. Le chiese sono ancora il luogo in cui è più evidente che altrove quella che Carlo Levi chiamava la compresenza dei tempi. Se volessimo usare una formula un po’ popolare, che può essere capita e amata forse da molti ragazzi che amano il mondo di Harry Potter, si potrebbe dire che sono delle ‘passaporte’ attraverso cui si riesce ad arrivare ad altri tempi ed altre dimensioni. In effetti, in un tempo così schiacciato sul presente, così sordo verso il passato e purtroppo incapace di un futuro diverso, in questa nostra miopia, le chiese ti insegnano, ti aprono, ti portano in un’altra dimensione. Sono come un respiro, una pausa, come un silenzio, una consolazione, qualcosa che ti sottrae al tritacarne di una vita tutta misurata in termini di produttività, performance, successo. Ecco, nelle chiese si può essere se stessi e ascoltare: cosa che ormai è davvero difficile fare altrove.

La pandemia, secondo lei, ci ha aiutato a riscoprire questo valore?

Io penso di sì, perché ci siamo trovati chiusi nel nostro privato e devo dire che è stato molto importante le chiese fossero aperte. In certi momenti era difficile permettere la liturgia ed era giusto che fosse sospesa, dolorosamente, per causa di forza maggiore ma le chiese, enormi nello spazio e, purtroppo tristemente semivuote, erano luoghi non solo per la preghiera privata ma anche per entrare in una dimensione che permetteva di pensare, di capire che questa emergenza sarebbe finita. Le chiese rimettono in prospettiva tutte le urgenze e le paure, le preoccupazioni del presente. Entrare nei luoghi che hanno visto pestilenze, guerre, e sono sopravvissute era anche un modo per pensare che poi ci sarebbe stato futuro. Questa è una cosa che spesso dimentichiamo: il patrimonio culturale non ci parla soltanto del passato ma anche del futuro. La riflessione sulla tutela del patrimonio nel nostro Paese dal Medioevo in poi è sempre stata quella di un pensiero rivolto al futuro: in qualche modo si protegge e si tutela la proiezione nel domani attraverso la conoscenza e l’amore per ciò che è successo ieri. Il punto vero è non essere prigionieri dell’oggi.

A proposito del modo attraverso cui far vivere le chiese, viene in mente l’iniziativa ‘pietre vive’ che ha proprio l’obiettivo di rinvigorire la conoscenza artistica di questi scrigni di bellezza per farne, appunto, luoghi vivi. Mi sembra molto in linea con la sua visione…

Sì, c’è qualcosa che va anche oltre, però. Intendo dire che la soluzione, io credo, non è un approccio esclusivamente turistico o erudito – e lo dice uno storico dell’arte – per esempio non dobbiamo immaginare che le chiese debbano acquistare le funzioni in un modo performativo: è giusto che ci possano essere dei concerti, oppure percorsi espositivi di arte contemporanea, gli stessi gesuiti lo hanno fatto a Milano… è tutto possibile e in parte giusto. Ma io credo che non dobbiamo nemmeno avere l’ossessione di riempire perché proprio nel loro essere vuote, le chiese ci riempiono di senso. Come le pause. E’ la scala smisurata delle grandi basiliche medievali che appare nello spazio urbano a stupire l’animo di chi ne è capace. A cosa servirà mai quel grande vuoto? Forse serve proprio a raccordare l’anima, lo spirito, l’interiorità su una dimensione di apertura, di pausa, di silenzio. Credo che questa forma di coltivazione della propria umanità – perché poi di questo si tratta – sia particolarmente importante, proprio nella sua dimensione gratuita, cioè che non ha una finalizzazione immediata. Per questo io credo che sia molto grave mettere i biglietti di accesso nelle chiese e sono molto felice che il Papa abbia sempre impedito che nella diocesi di Roma questo succedesse. In molte altre diocesi italiane, nonostante le prescrizioni della Conferenza episcopale, questo invece succede.

Lei in sostanza invoca un’armonia tra vuoto e pieno che si esprime sia da un punto di vista, diciamo, spaziale, visivo, che interiore e temporale… Le chiedo di lanciare un appello a chi è preposto alla cura degli edifici di culto…

Sia chiaro, qui non si tratta di colpevolizzare nessuno, la situazione è complessa e difficile. Credo, tuttavia, che le Sovrintendenze – sappiamo che sono organi colpiti dal definanziamento e anche dalla delegittimazione in corso della politica – insieme alle istituzioni religiose avrebbero il compito, e anche il dovere, di dare la precedenza alle chiese. Siamo in un Paese che organizza un numero stratosferico di mostre, anche di eventi effimeri… Io penso che dovremmo dare la precedenza ai monumenti più che agli eventi. Potremmo impiegare lo stesso sforzo di conoscenza, di diffusione, di propaganda per fare conoscere le chiese e credo che bisognerebbe sperimentare – e in alcune città italiane si comincia a farlo – delle forme cooperative che possano assicurarne l’apertura con qualcuno che, volendo, può anche indirizzare i visitatori. In Piemonte, in Val d’Aosta alcune piccole chiese alpestri, e non solo, si possono aprire tramite una app nel cellulare che reagisce con la serratura e quindi permette a persone individuate – mantenendo quindi sicurezza – di entrare e di usufruire di un sistema di guide registrate, oppure semplicemente di stare in silenzio nella chiesa. Ci sono mezzi sostenibili senza l’imposizione di un biglietto. Credo che questo meriterebbe un investimento di denaro pubblico perché investiremmo in qualcosa che è molto simile alla scuola.

Lei sostiene che le chiese sono un luogo politico. In che senso?

La politica è l’arte di costruire la polis, la città. Le chiese sono tra i pochi pubblici dove si dovrebbe poter entrare senza pagare, senza una dichiarazione necessaria di appartenenza religiosa o politica, ma nient’altro che la definizione di umani. Se c’è una dimensione che la politica dovrebbe riconquistare oggi è un’apertura verso l’umano in quanto tale, senza aggettivi, contrapposizioni, identitarismi violenti.

Spesso si dice che si fa fatica a riportare la gente in chiesa: lei cosa ne pensa?

Bisognerebbe evitare di trattare i giovani come delle mandrie da condurre da qualche parte. Da professore universitario posso dire che sono grato perché imparo dai ragazzi più di quello che insegno. Bisogna ascoltarli, innanzitutto. E anche questa è una cosa che nelle chiese si impara, stare un po’ in silenzio ad ascoltare. 

Sono passati due anni e mezzo dall’incendio della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Come guarda ai lavori di rifacimento?

Con fiducia, spero che staremo nei tempi. Devo dire che sono contento che Macron, dopo un primo momento in cui si era lasciato andare a immaginare un rifacimento soprattutto per la grande guglia affidato a gare fantasiose di architetti contemporanei, abbia capito che invece Notre Dame debba essere ricostruita come era e dov’era. Io penso che bisogna ascoltarli ogni tanto gli esperti. Che possiamo presto riacquistare un luogo che davvero varca i limiti confessionali. Io ricordo in quell’occasione – lo dico anche nel libro – un bellissimo messaggio del Ministro della Repubblica islamica dell’Iran che si diceva vicino ai francesi nel ricordo di Victor Hugo. Ci può essere un simbolo più forte di quanto Notre-Dame appartenga a tutta l’umanità? Io credo di no.