Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Nella canonica di Monte di Malo, alla periferia di Schio, piangono Nadia De Munari come i suoi genitori a Giavenale, a pochi chilometri di distanza. Qui, dove da dieci anni Massimo Casa e la moglie Rossella, referenti locali dell’Operazione Mato Grosso, hanno creato una fraternità missionaria e vivono con i quattro figli, altri volontari e ospitano i sacerdoti missionari del movimento che rientrano di tanto in tanto nel vicentino, Nadia, 51 anni a luglio, volontaria permanente in Perù, era di casa, quanto tornava in Italia. Nella notte tra martedì e mercoledì scorso è stata brutalmente aggredita nella sua camera del centro educativo “Mamma Mia” a Nuevo Chimbote, baraccopoli sulla costa peruviana, dove con altre volontarie dell’Operazione Mato Grosso gestiva sei asili e una scuola elementare, e sabato è spirata nell’ospedale di Lima, dopo un disperato intervento dei medici che cercavano di salvarla.
Prima di Nadia, la perdita di Giulio Rocca e don Daniele Badiali
Per l’Operazione Mato Grosso, movimento missionario fondato nel 1967 dal salesiano don Ugo De Censi (scomparso nel 2018), non è la prima, terribile perdita in terra di missione. Sempre in Perù, dove ha chiesto di essere sepolto il fondatore, e dove l’Omg ha 40 comunità (17 sono in Ecuador, 12 in Brasile e 9 in Bolivia) sono morti Giulio Rocca, trentenne volontario permanente di Sondrio, che , partito ateo, nel 1992 stava per entrare in seminario, quando fu ucciso dai terroristi di Sendero Luminoso, e don Daniele Badiali, il “martire delle Ande” per il quale è in corso la causa di beatificazione. Il 16 marzo del 1997 si è offerto come ostaggio al posto di una volontaria italiana, ed è stato poi ucciso dai rapitori, forse banditi che il sacerdote aveva riconosciuto, forse uomini dei servizi segreti peruviani, per il suo impegno nella difesa dei diritti umani.
Innamorata del sogno di dare un futuro diverso ai piccoli
“Nadia era innamorata del suo servizio ai bambini, e del suo sogno di regalare a loro amore, affetti e punti di riferimento, per curare una società che è malata nel profondo”. Così Massimo, che 34 anni fa, quando la De Munari era ancora diciasettenne, ha raccolto e dato una strada alla sua voglia di fare qualcosa per gli altri, ricorda per Vatican News quell’amica che era quasi una figlia. Nell’attesa di salutarla per l’ultima volta, su questa terra, quando ci sarà il funerale, previsto a Schio non appena sarà possibile portare il corpo della missionaria laica in Italia.
R.- La verità è una prerogativa di Nadia, che ha sempre voluto conoscere: una ragazza molto sensibile e anche molto attenta. Non voleva che le si raccontassero bugie, anche nelle nostre amicizie era proprio così, con carattere. “Dimmi quello che è, non fare tanti giri di parole”, mi diceva.
Ed è così che la vuole ricordare?
R.- Certamente! Prima di tutto la sua sensibilità verso chi soffre, il fatto di non farlo da sola, ma farlo con gli amici, con le persone care, e la scelta degli ultimi. Guardare a chi sta peggio e soprattutto anche la voglia di verità. Da qui andiamo anche alla sua voglia di verità nella fede, nella spiritualità. La sua determinazione anche di ricercare un senso della vita che potesse essere ben più al di là della nostra materialità. Non spetta a me dirlo, ma come cristiano, come padre di famiglia, la considero una martire: ha regalato tutta la vita.
Il ricordo che ho di Nadia va lontano nel tempo, perché l’ho conosciuta che era una ragazza diciassettenne, che stava cercando di capire dove indirizzare la sua vita. Ha partecipato attivamente ai gruppi dell’operazione Mato Grosso della zona, dove ha potuto vivere delle belle amicizie, fintanto che ha manifestato il desiderio di vivere di persona l’esperienza di aiuto ai poveri. Dopo un po’ di formazione è riuscita a fare la prima esperienza in Ecuador, parliamo degli anni ‘90-‘91. Dopodiché è tornata a casa. Noi l’abbiamo sempre seguita – io sono sposato con Rossella e abbiamo quattro figli e la vedevamo come un’altra figlia – nel suo cammino anche di formazione. Finché ha desiderato ripartire per più tempo per il Perù ed è arrivata in questa vallata, nel villaggio di Chiambara, diocesi di Huari, e faceva la maestra d’asilo e la formatrice di altre maestre d’asilo. La sua professione originaria la portava a questo punto.
Lo ha fatto per quasi 20 anni?
R.- Questo l’ha fatto per parecchi anni e poi a un certo punto è sorta l’esigenza di affrontare la realtà della costa del Perù, questa città sul deserto che da piccola in pochi anni è diventata una metropoli. Purtroppo l’espansione ha provocato baraccopoli, espansione sul deserto, tensioni sociali e molte situazioni di degrado. In questa situazione abbiamo iniziato 5-6 asili che Nadia seguiva. Seguiva sia i bambini sia la formazione delle maestre e conseguentemente seguiva anche le situazioni familiari. Perchè nel momento in cui ti addentri nella vita di un bambino che segui, inevitabilmente vieni a conoscenza dei drammi familiari, di come la povertà e la miseria arrivano a superare confini che non immagini.
Come le parlava del suo servizio con i bambini, sia nelle zone di montagna che poi nell’ultima città?
R.- Innamorata di riuscire ad offrire ai bambini una educazione, una formazione per cominciare a cambiare il tessuto sociale fin da piccoli. Se cominci con i piccoli a regalare un po’ di affetto, di amore, di punti di riferimento, probabilmente riesci a curare anche una società che è malata nel profondo. Lei sognava questo servizio, diceva: “Iniziamo dai piccoli e facciamoli crescere”.
C’è un po’ di commozione nella sua voce. La sentiva quasi come una figlia?
R.- Certamente sì… Quando Nadia tornava dalla missione, passava qualche settimana dai suoi genitori, che sono anziani. Però, anche per non dare troppo peso a loro, veniva ospitata a casa nostra, che da prima era una casa di una famiglia normale, ma da 10 anni noi viviamo in una canonica, sempre dell’Alto Vicentino, dove abbiamo formato una fraternità missionaria. Viviamo con altri giovani, qualche volta con qualche sacerdote e accogliamo i nostri amici che dalla missione ritornano e che hanno bisogno di uno spazio. Per cui Nadia era una di noi, una della nostra famiglia e quindi può immaginare come il dolore ci appartiene, e ci sta facendo un po’ provare sentimenti di dolore profondo.
Certo capisco… L’Operazione Mato Grosso, è un movimento aconfessionale, ma don Ugo De Censi, il vostro fondatore, diceva più o meno: tu fai fatica per gli altri, vedrai che avrai bisogno di Dio, sentirai il desiderio di conoscerlo. Nadia aveva incontrato Dio?
R.- Non ti so dire se l’aveva incontrato. La sua sensibilità glielo faceva cercare ogni volta: non ha mai avuto un’illuminazione diretta, però non ha mai smesso di riempire il suo desiderio, il suo cuore, di ricerca. Perché diceva: “Solo lì posso trovare, perché da noi uomini cosa vuoi trovare? Siamo regno animale… Ho bisogno di un’altra dimensione”. Prove o miracoli non ne ha mai visti, ma la speranza l’ha sempre portata a fare il suo dovere quotidiano. Se si va in profondità nell’osservare le dinamiche familiari, sociali, ci si accorge che è difficile trovare il desiderio di Dio, nella società, sia nella nostra sia, peggio ancora, nella società miserabile di una bidonville. Perché quella gente, che è migrata dopo una vita in semplicità, poteva conservare ancora un po’ di religiosità antica nei villaggi delle Ande. Ma quando poi è scesa dalle montagne ed è entrata nelle metropoli, ha iniziato a vivere la sofferenza della bidonville, la violenza che c’è ogni giorno li, a Chimbote, e poco a poco ha iniziato a perdere anche quella religiosità tradizionale. Si attacca alle cose materiali, che non ci sono neanche quelle, e quindi la miseria si fa anche atrocità.
Nadia, non è la prima missionaria e volontaria permanente dell’Operazione Mato Grosso che perde la vita in missione. Lei aveva coscienza del rischio che la missione comunque comporta?
R.- Sì, Nadia sapeva benissimo che poteva incorrere in qualche incidente. Per questo si è sempre mossa con molta prudenza, non girava mai da sola, però il lavoro capillare di carità, casa per casa, ci dava sicurezza. Non è l’unica opera che abbiamo a Chimbote: Nadia seguiva gli asili, però ci sono tre parrocchie che sono portate avanti da sacerdoti italiani, legati al movimento dell’Operazione Mato Grosso. Ci sono due scuole professionali e c’è un ciclo intero di formazione scolastica, che è appena iniziato. Per cui è proprio un insieme di presenze, e si è cercato lavorare su vari fronti. La tipicità è la capillarità: si va casa per casa, si risponde ai bisogni di persone singole e non si fanno tante iniziative politiche o di grande risonanza pubblica. Però c’è una presenza capillare: questa capillarità ha sempre difeso finora tanti volontari, tante opere e la possibilità di continuare a vivere con la gente, a servirla, a far sognare anche questa gente che può esserci un mondo diverso. Quindi anche l’affetto della gente è capillare. Per questo siamo molto sconcertati, molto scossi e increduli per quello che è successo. E’ chiaro, sappiamo e anche lei sapeva, che non stava andando in paradiso, stava andando in un girone dell’inferno. La consapevolezza di questo faceva sì non lo facesse da sola, che fosse in cordata.
L’aggressione a Nadia può essere quindi non una rapina, ma forse è legata alla volontà di colpire il suo e il vostro lavoro?
R.- Non lo sappiamo, speriamo che non sia così. Però le indagini stanno andando avanti e fintanto che non salta fuori chi è stato e perché ha compiuto un gesto così atroce, noi non possiamo neanche a formulare ipotesi. Perché davvero può essere successo di tutto, non possiamo sapere se possa essere stata una rapina o una vendetta personale, in questo momento. Spero che le autorità riescano a trovare la verità.
I duemila parrocchiani di Santa Maria di Giavenale, un altro quartiere di Schio, appena sabato si è diffusa la notizia della scomparsa di Nadia si sono stretti attorno alla madre Teresina, al padre, alle due sorelle e ai sei nipoti. Alla messa di sabato sera il parroco don Gaetano Santagiuliana ha ricordato la figura della missionaria laica scomparsa, e domenica ha guidato il rosario, al quale hanno partecipato anche gli anziani genitori di Nadia e quattro sacerdoti dell’Operazione Mato Grosso rientrati da poco dal Perù. Cosi don Gaetano ci descrive la parrocchiana:
R.- Nadia era una persona solare. Ho testimonianze di amici gli amici che hanno vissuto la fanciullezza con lei, e l’età verso la maturità. Una solarità che era amicizia, gioco, divertimento, sempre con spirito di relazione e cristiana, anche, perché il nostro sole è Gesù Cristo.
Quando Nadia rientrava a casa dalla missione in Perù, raccontava la sua esperienza negli incontri missionari che organizzavate in parrocchia. Come parlava del suo servizio e della situazione dei bambini in Perù?
R.- Raccontava la sua esperienza, semplicemente. Perché lei non si sentiva un eroe, giustamente. Raccontava le attività che quotidianamente metteva in opera, prima in cima alle montagne, tra gli emarginati, i poveri, i bambini e dove c’erano distanze chilometriche da fare, a piedi, per andare a visitare una famiglia…
Diceva cosa l’ha spinta a lasciare tutto e partire, a 24 anni, per questa missione?
R.- Penso che sia un effetto della cultura religiosa della famiglia. I genitori li conosco molto bene, e certamente lei si è abbeverata anche dei sentimenti e degli insegnamenti dei suoi genitori.
Ha già pensato a cosa dirà al funerale di Nadia?
R.- Io solitamente penso ma dopo non scrivo niente, e cerco di andare col cuore…
Però ha già parlato di lei nelle celebrazioni di domenica. Che cosa ha detto?
R.- Che ho parlato con sua madre e ho sentito una alta teologia della semplicità e dell’espressione, perché una madre che dice che sua figlia era una martire e che anche lei era serena, perché l’ho incontrata subito dopo il rosario. Allora dico: è alta teologia, teologia popolare, che raggiunge direttamente il cuore, nostro e di Dio.
Che cosa lega in particolare la terra veneta con l’America Latina? Ci sono stati molti giovani in passato, ma anche adesso come Nadia ha testimoniato, che decidono di farsi missionari lì. Ricordo ad esemprio il comboniano padovano padre Ezechiele Ramin, che ha dato la vita proprio in Mato Grosso…
R.- Dare la vita dovrebbe essere la vocazione di tutti i cristiani, perché, lo dicevo anche nella predica di domenica, c’è il martirio quotidiano, cioè le croci da portare, il dono da fare della nostra vita, l’attenzione ai più deboli, e poi lei ha avuto anche il privilegio del martirio del sangue. Mi diceva anche la mamma che lì è zona di mafia e quindi lei aveva paura. È probabilmente è stata anche la cause della sua morte, perché puntano in alto per sottomettere gli altri.
Quindi non è stata solo una rapina, ma volevano colpire anche il suo servizio?
R,- Probabilmente sì, almeno secondo i genitori.