Chiesa Cattolica – Italiana

Siviglia, beatificati venti martiri della guerra civile spagnola

Nella cattedrale di Siviglia, il cardinale Semeraro ha elevato agli altari don Manuel González-Serna Rodríguez e un gruppo di compagni uccisi in odio alla fede nel 1936: il martire non è semplicemente uno che subisce la persecuzione, ma pure uno che è capace di dire: “Padre, perdona”

L’Osservatore Romano

La vita cristiana «non è una gita, ma una missione rischiosa»: non c’è «chi è pagato per applaudire, come negli spettacoli terreni»; anzi, Gesù «avverte che perfino i legami famigliari possono risultare compromessi dal discepolato di lui». Lo ha sottolineato il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, che sabato mattina, 18 novembre, nella cattedrale di Siviglia, ha presieduto, in rappresentanza di Papa Francesco, la beatificazione di don Manuel González-Serna Rodríguez e 19 compagni martiri.

 I venti nuovi beati, ha spiegato il porporato, sono un ulteriore esempio di quella «santità martiriale» di cui ha parlato giovedì scorso Papa Francesco nell’udienza ai partecipanti al convegno sul tema «La dimensione comunitaria della santità». La loro morte violenta, ha ricordato, si colloca nel contesto della persecuzione religiosa spagnola nel 1936. I singoli episodi furono accompagnati anche da distruzioni di immagini sacre, incendi di chiese e altri edifici religiosi.

La maggioranza del gruppo di martiri è composto da sacerdoti; gli altri sono fedeli laici e, fra loro, uno con il figlio ancora seminarista. C’è pure una donna che, molto «attiva nelle opere di carità, era collaboratrice del parroco», don Manuel González-Serna Rodríguez. Quest’ultimo, «per dare testimonianza della propria fede, volle essere fucilato accanto al Vangelo». Un altro sacerdote, Miguel Borrero Picón, «al momento del martirio volle indossare la talare per mostrare pubblicamente la propria identità». L’uccisione degli altri avvenne «in forme diverse; tutti, però, nel momento decisivo accettarono la morte come espressione della propria fedeltà a Cristo». Il sacerdote Juan María Coca Saavedra, durante i cinque giorni di prigionia a cui fu sottoposto, esercitò il ministero della riconciliazione; altri, poi, «pregavano e si confortavano a vicenda, esprimendo anche parole di perdono per i loro uccisori».

Il cardinale ha ricordato sant’Ambrogio, che quando predicava a Milano parlando del martirio della vergine Agnese disse: «La chiamo martire… Non è sufficiente?». D’altra parte, il Vangelo afferma: «Vi consegneranno ai tribunali… Quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire…» (Mt 10, 17-19). Non sono davvero «parole che tranquillizzano», ha commentato Semeraro. Esse fanno capire anzitutto una cosa: «venerare i martiri e considerare la loro sorte e i patimenti subiti per la coerenza cristiana anche nella persecuzione, non deve distrarci, né distoglierci dal riflettere sulla nostra condizione cristiana».

Resta il fatto che «Gesù non è un venditore di illusioni; non è un propagandista, che mostra ai suoi clienti tutto facile e a portata di mano». Egli «domanda ai suoi discepoli di essergli simili in tutto, anche nella sofferenza e nella condanna». Però assicura «una vicinanza interiore che conforterà: quella dello Spirito». Per questo il cristiano «non deve lasciarsi intimidire, ma deve conservare la fiducia».

Di sofferenze parla pure san Paolo in un brano della lettera ai Romani (5, 5) e richiama la presenza dello Spirito. L’apostolo vuole dire che anche la «sofferenza e la prova possono, nella prospettiva cristiana, acquistare un senso» e «non vale davvero la pena considerarsi dei superuomini, dei perenni vincitori: quelli — ha commentato il prefetto — lasciamoli nelle fiction televisive». Le prove della vita possono, invece, «aiutarci a maturare e, mettendo in conto la nostra fragilità — non vivere mettendo in concorrenza le nostre forze, ma condividendo le nostre fragilità —  ci aiutano ad aprirci a una condivisione umana».

Il porporato ha poi ricordato un antico inno cristiano in onore dei martiri, che «comincia con il lodare questi testimoni di Cristo». Dice di loro che, «infiammati da un vero amore, furono più forti della umana paura della morte e che, dopo avere subito il martirio, ora sono in cielo e godono della gioia senza fine». Subito dopo, però, l’inno passa a considerare la situazione nella quale si trova ciascuno: «afferma che per tutti c’è una condizione di martirio e ne enumera tre forme». La prima è pro fide mortis passio, ossia «il subire la morte a motivo della fede cristiana». Il secondo martirio che un fedele è chiamato a vivere è la iniuriae remissio, cioè «il perdonare le offese». La terza forma è la proximi compassio, ossia la misericordia.

 Il primo martirio, ha fatto notare Semeraro, «non sempre accade»; il secondo e il terzo, invece, «dobbiamo viverli sempre». Del resto, «essere anche noi sottoposti a delle prove e sofferenze e, perché no, anche delle tentazioni, vuol dire essere posti nella condizione di diventare capaci di perdonare e di avere misericordia».

Di uno di questi martiri, il sacerdote Francisco de Asís Arias Rivas, «i testimoni hanno esplicitamente dichiarato che pur avendo dovuto sopportare dai persecutori speciali umiliazioni, morì perdonando». Ugualmente don Mariano Caballero Rubio e don Pedro Carballo Corrales morirono invocando la misericordia di Dio e il perdono dei loro aggressori. «Il martire, in fin dei conti — ha concluso il cardinale — non è semplicemente uno che subisce la persecuzione, ma pure uno che, come Gesù dalla croce, è capace di dire: “Padre, perdona”».

Exit mobile version
Vai alla barra degli strumenti