Siria, il nunzio Zenari: dopo la guerra è esplosa la “bomba povertà”

Vatican News

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Appena atterrato a Roma da Damasco, il cardinale Mario Zenari, dal 2008 nunzio apostolico in Siria, è corso a pregare alla tomba di san Paolo. Ieri mattina, dopo la celebrazione con il Papa, si è soffermato invece a pregare davanti alla tomba di san Pietro affidando le sorti di quella terra martoriata da oltre un decennio di conflitti e ora da una povertà endemica, dagli embarghi e dalla crisi del Covid-19. “Quella dei Santi Pietro e Paolo è per me una spiritualità molto forte, perché da oltre quarant’anni sono al servizio di Pietro, come rappresentante pontificio, dodici di questi nella città di Paolo, a Damasco”. Il cardinale è arrivato a Roma per la plenaria della Roaco, durante la quale ha illustrato la situazione attuale del Paese, diviso al suo interno, teatro di scontri tra cinque eserciti esteri, dove ci sono regioni che usano già valute diverse. “L’auspicio della Santa Sede e della comunità internazionale è che la Siria sia indipendente e unificata, ma la realtà è tutt’altro”.

Il dolore per i cristiani che emigrano 

Mentre parla con Vatican News, che lo incontra a Casa Santa Marta, il porporato sembra contrarre il volto in smorfie di dolore, soprattutto quando parla delle condizioni difficili in cui versa la popolazione, salva dai bombardamenti che hanno seminato per un decennio morte e distruzione ma attualmente “strangolata” da una povertà che la costringe alla fame. Zenari si dice addolorato anche per la drastica riduzione della popolazione cristiana dopo la guerra: “Per oltre duemila anni hanno abitato quei luoghi e dato un contributo fondamentale alla cultura, all’educazione, alla sanità e anche alla politica, ora più della metà sono andati via. Prima della guerra si stima che fossero un milione e 500mila tra cattolici, ortodossi, protestanti; adesso potrebbero essere 500mila, quindi due terzi. È una ferita grave per la Chiesa ma anche per il Paese, perché quelli che emigrano sono giovani qualificati, rimangono solo anziani e bambini. Ho sempre usato l’immagine dei cristiani come ‘una finestra aperta sul mondo’ per la società cristiana, quando vedo giovani e famiglie andare via questa finestra si chiude”.

Eminenza, dopo oltre dieci anni di guerra e devastazione in Siria, si vede un miglioramento o la situazione è allo stallo oppure addirittura peggiorata?

Purtroppo miglioramenti non ce ne sono. Si può dire che in alcune zone della Siria non cadono più bombe, eccetto nel nord-ovest, nella provincia di Idlib, dove ci sono di tanto in tanto degli scontri, però, come ripeto spesso, nel Paese è scoppiata una terribile bomba che colpisce – secondo i dati delle Nazioni Unite – circa il 90 per cento della popolazione. È la bomba della povertà, che riduce i siriani a vivere sotto la soglia di povertà, perché dopo dieci anni di guerra c’è distruzione, non c’è ricostruzione, non si vede ancora l’avvio economico e il processo di pace è fermo. E intanto la povertà avanza molto velocemente. Per esempio, a Damasco quando esco vedo scene che prima non vedevo, immagini che fanno riflettere come le code di persone davanti ai panifici che vendono il pane a prezzi sovvenzionati dallo Stato, visto che la povera gente non ha a disposizione soldi. Si vedono pure lunghe code di auto ferme ai distributori di benzina e benzina non ce n’è… Immagini simili non si vedevano neanche durante il periodo più duro della guerra. La popolazione chiama questo periodo così critico la “guerra economica”. Una guerra che veramente strangola la popolazione.

A questo si aggiungono anche le sanzioni… 

Sì, quelle colpiscono gravemente e frenano la ripresa economica. A ciò si aggiunge il problema della corruzione crescente, i casi di mal governo… Da un paio di anni circa, a colpire duramente la Siria è anche la crisi libanese, soprattutto nel settore finanziario, che si ripercuote con effetti negativi anche su progetti umanitari che ogni diocesi cerca di portare avanti. Effetti negativi che, naturalmente, provengono anche dalla pandemia universale. Questo fa sì che un altro malanno grava sulla Siria e cioè un oblio, una coltre di silenzio. Si parla molto raramente della Siria quando invece ci sarebbe urgenza di parlarne, perché se – ci auguriamo di no – il processo di pace, con l’aiuto della comunità internazionale, non si sblocca, se non si mette in moto la ricostruzione e l’avvio economico, la Siria finisca strangolata con effetti devastanti per i suoi abitanti.

Alla plenaria della Roaco, alla quale è intervenuto, quali istanze ha presentato, quali proposte ha avanzato? 

Io sono un veterano ormai della Roaco. Ero insieme a colleghi nunzi venuti da Georgia, Etiopia e altri Paesi, erano per così dire “freschi, freschi” coi loro problemi. Io da dieci anni rappresento la Siria, quindi ormai da dieci anni mi vedono venire a stendere la mano per questi aiuti. Quest’anno non ho steso solo una mano ma due, perché la situazione – come ho detto – è piuttosto critica. Le statistiche sul livello di povertà dell’Onu sono davvero impressionanti: la Siria è in cima alle nazioni che soffrono. Quindi quest’anno sono venuto alla Roaco e ho aperto le due mani… I loro sono ovviamente aiuti preziosi, ma comunque gocce d’acqua nel deserto. Anche gli aiuti umanitari che arrivano da questi Paesi che hanno imposto le sanzioni ma che dicono di voler continuare ad aiutare (seppur ci siano sempre degli intoppi), sono dei rubinetti nel deserto. Per questo deserto che è la Siria servirebbe invece un grande fiume.

E cosa bisogna fare per aprire questo fiume? Anche e soprattutto a livello politico.

A livello politico, l’inviato speciale dell’Onu per la Siria continua a ripetere che prima di tutto bisogna mettere in moto il processo di pace, secondo la Risoluzione dell’Onu 2254. Questo processo è fermo, bisogna perciò sbloccarlo. E bisogna far cadere la sindrome del “You First”, cioè che le parti aspettano che l’altro cominci. Tutte le parti coinvolte nel processo di pace, anche le varie capitali, devono mettere contemporaneamente sul tavolo delle offerte. Offerte di buona volontà. Io dico sempre che sono coinvolte soprattutto tre capitali: Washington, Bruxelles, come Unione Europea, e anche Damasco, che deve far qualcosa, dei gesti di buona volontà specie nel campo umanitario. Se tutti, oltre queste tre capitali, aspettano che sia l’altro a cominciare non si va da nessuna parte, si rimane bloccati. E qui occorre un intervento della comunità internazionale, una diplomazia allargata e costruttiva che spinga le parti a mettersi in moto.

Ha avuto modo in questi giorni di presenza a Roma di parlare con il Papa per aggiornarlo sulla situazione siriana?

Sì, ho avuto la fortuna di incontrare privatamente il Santo Padre, qualche giorno fa. Ogni incontro con il Papa è sempre molto denso. In questa mezz’ora insieme, Papa Francesco ha ascoltato con molto interesse quanto gli ho riferito e poi mi ha detto: “Si proponga, e quello che sarà proposto siamo disposti a farlo”. Quindi una piena disponibilità da parte del Papa a cercare qualche via che possa essere utile: “Pensate, riflettete, suggerite”. Questo mi ha incoraggiato molto.

Domani si terrà la Giornata speciale di riflessione e preghiera dedicata al Libano. Si potrebbe pensare ad un evento simile anche per la Siria? 

Seguo con attenzione questo momento particolare di riflessione per il Libano (non direttamente, anche se vi partecipano tre patriarchi che hanno la loro sede in Siria), 

perché, come dicevo, la crisi libanese ha portato degli effetti negativi anche sulla Siria. Voglio sperare che questo incontro avrà un buon esito positivo, dei frutti che potranno avere un effetto anche sulla Siria e, in generale, sul Medio Oriente. È veramente un evento questo incontro dei patriarchi con il Papa. Non è escluso che si possa pensare ad un incontro simile per la Siria. Il Medio Oriente, purtroppo, ha delle disgrazie in comune, tuttavia ciascuna nazione ha delle proprie caratteristiche peculiari. Ciò non esclude che questo esempio possa portare a riflettere magari su qualche possibilità per la Siria, simile o in altre forme. Potrebbe avere un effetto “contagioso”, nel senso positivo, e suggerire quindi nel futuro qualche iniziativa anche per la Siria.