Chiesa Cattolica – Italiana

Sinodalità e vita monastica: un’esperienza dettata dallo Spirito Santo

Alla luce di Chiara d’Assisi, una monaca clarissa cappuccina offre alcuni spunti tratti dalla vita monastica essenziali per la sinodalità fra cui il senso biblico della giustizia e di potere limitati. Da sempre all’interno del monachesimo si realizza l’ascolto, la partecipazione, il discernimento in comune nella convinzione che “ciò che tocca tutti da tutti deve essere deliberato”

Suor Chiara Francesca Lacchini

In tempo di Sinodo, mi piace pensare che il mondo monastico avrebbe qualcosa da dire su questa preziosa prassi ecclesiale, che non gli viene dalla sua erudizione ma piuttosto dalla sua natura di vita comunitaria e cenobitica, fraterna e sororale, da sempre caratterizzata da forme differenti e molteplici di sinodalità attiva e fattiva.

In maniere che si differenziano a seconda delle tradizioni spirituali, è una caratteristica dei monaci e delle monache ritrovarsi insieme per pregare, comprendere, decidere, accogliere, discernere. Questa terminologia ben esprime cosa concretamente significhi sinodalità nella vita quotidiana, e come dentro le nostre case e nelle nostre dinamiche relazionali si tenti di vivere un’autentica esperienza ecclesiale e spirituale, che implica sempre la disponibilità a camminare insieme, a condividere una visione, una prospettiva che ci attrae e a individuare tappe e modalità che attivino in ognuno e nella comunità un cambiamento duraturo ed efficace.

La comunità delle clarisse cappuccine durante la recita della Liturgia delle Ore in coro nella loro cappella

È un’esperienza dettata dallo Spirito Santo e conserva un margine ampio di apertura e imprevedibilità, caratteristiche tipiche dello Spirito, che soffia e va dove vuole.

Facendo riferimento alla tradizione che meglio conosco, quella che guarda a Chiara d’Assisi, posso affermare che dentro le relazioni Chiara invita a riconoscere a tutte il diritto e il potere di parola e chiede a tutte un atteggiamento di ascolto, che permetta a ognuna di portare il proprio contributo di pensiero nel vivere insieme. La sua esperienza ci insegna che ogni parola che mette in circolo la vitalità di ciascuna e il Vangelo è preziosa, è un dono che rinnova e qualifica il discernimento dell’intero popolo di Dio. Dentro queste affermazioni ritroviamo quanto la millenaria esperienza della vita monastica ha espresso molto tempo prima con Benedetto e che Chiara ha mutuato con queste parole: “E riguardo alle cose che devono essere trattate per l’utilità e l’onestà del monastero, [la madre] ne conferisca [in capitolo] con tutte le sorelle; spesso infatti il Signore rivela ciò che è meglio al più giovane”.

Vi è un autentico esercizio di fede e di speranza nel rimanere costanti e fedeli a riunirsi, a credere che non è perdita di tempo ritagliarsi uno spazio in cui tutti possano parlare, in cui a tutti sia data parola e in cui tutti si espongano a prendere parola! Un autentico processo di sinodalità, nella speranza di un coinvolgimento che vada oltre la semplice e preziosa disponibilità a fare insieme servizi e lavori per la comune utilità; uno spazio in cui possano cadere gli alibi di chi nasconde la propria paura di esporsi dietro alle scuse del “qui non si può parlare”; e in cui possa cadere il timore di chi teme che liberare voci e pensieri possa portare a indisciplina o confusione.

Nella vita monastica gli spazi e i tempi dei dialoghi comunitari, dei tentativi di comprendere e decidere insieme vanno difesi, curati, perché diventino un’esperienza in cui ognuno possa avvertire il riconoscimento della dignità di parola e possa apprendere l’arte di esprimerla, sentendosi efficacemente parte di un cammino. Questo certamente non è né semplice né facile, e implica percorsi più lunghi e più complessi, fatti di inclusione delle diversità e composizione delle differenze, laddove talora i cammini comunitari sono frammentati da lentezze provocate da opinioni “altre”, da idee non pienamente evangeliche espresse in maniera faticosa e qualche volta non delicata, e/o da recriminazioni personali. Ma proprio questo costituisce una sfida al cammino di continua conversione alla sinodalità, a quell’“insieme” che costantemente emerge per Chiara, dall’esperienza delle origini a san Damiano.

La comunità monastica di San Romualdo durante un momento di ricreazione comune

Nella vita religiosa e monastica capita non di rado di incontrare un sentimento di delusione e frustrazione nel constatare la fatica dell’esercizio della condivisione. Credo che parte della nostra missione possa essere di custodire, come porzione di Chiesa e come comunità monastica, uno spazio di relazione e di scambio che renda questo esercizio praticabile, e che inveri quanto cantiamo nella salmodia: “Guarda come è bello e piacevole che i fratelli e le sorelle vivano insieme”.

Da più parti sentiamo dire che la sinodalità non può coincidere soltanto con una struttura, con una forma di governo (“io autorità” che ti concedo la parola), con eventi che pretendano di incarnarla; né tanto meno può essere intesa solo come atteggiamento interiore che rischia di non essere incisivo.

Nell’esperienza della vita monastica osiamo dire – sperando di non essere smentite – che la nostra forma di vita e la sua organizzazione procede grazie alla “struttura sinodale” che la abita e che la anima, e se continua a reggersi è per l’instancabile e faticosa volontà di mantenere al centro Gesù Cristo e il suo Vangelo, che riporta ognuno alla giusta distanza da ciò che veramente conta e in una relazione di caritatevole obbedienza reciproca in cui il servizio di autorità è volutamente limitato da un esercizio di corresponsabilità. La nostra piccola e limitata esperienza osa raccontare che non esiste sinodalità se non dentro un potere che è limitato. Da cosa? Dalla responsabile libertà della comunità di fare non ciò che vuole ma ciò che crede, ciò che lo Spirito le ha affidato, ciò che dà senso alla sua missione nella e per la Chiesa.

E in questo senso la povertà di ognuno diventa la garanzia della libertà per tutti; non una libertà ingenua e superficiale che crede di non essere condizionata da niente e da nessuno, ma una libertà che con dolore e fatica, a prezzo di cammini costanti di conversione e convergenze, ha compreso e comprende da cosa vale la pena farsi condizionare.

Il potere limitato diventa davvero autorità, nel senso che si pone nell’atteggiamento di generare e far crescere, e risponde non a un atto di virtù di qualcuno particolarmente santo ma a una norma di buon senso riconosciuta anche dal diritto nel momento in cui ricorda che “ciò che tocca tutti da tutti deve essere deliberato”.

All’interno di una comunità – come all’interno della Chiesa – vi è una pluralità di funzioni che corrisponde a una pluralità di doni: questi non possono essere “gestiti in proprio”, in maniera individuale ma richiedono il coinvolgimento di tutti. Non è in ballo una gestione democratica della comunità – diverse pagine evangeliche mettono in crisi il senso moderno di democrazia a favore del biblico senso della giustizia, in cui a ognuno viene dato ciò che è necessario, non ciò che è dato a tutti -, ma l’esercizio del discernimento comunitario, che è uno degli aspetti di un potere limitato, il cui compito è principalmente quello di mettere in moto dinamiche di dialogo e di ascolto che conducano il più possibile all’unanimità. Le varie esperienze di monachesimo nella Chiesa ci dicono che questo è possibile tanto nelle comunità maschili come in quelle femminili, a patto che tutti i fratelli e le sorelle riconoscano necessaria la conversione al dialogo, al confronto, alla dialettica, al dissenso quando necessario, senza che questo sia necessariamente un segno di insubordinazione all’ordine costituito. Nelle grandi sfide e questioni che ci interpellano, decidere e scegliere insieme è garanzia di fedeltà al Signore e di comunione.

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