Svitlana Dukhovych – Città del Vaticano
Sotto le luminarie e i canti natalizi tradizionali “kolyady” – con i cantori a passare di casa in casa ad allietare le famiglie e a ricevere doni – nessuno un anno fa avrebbe pensato che il Natale dopo sarebbe stato sotto le bombe, al buio e dentro case scoperchiate dai missili. Forse neanche 11 mesi fa, quando i carri armati russi invadevano il loro territorio, gli ucraini immaginavano che la Natività sarebbe stata celebrata in una cornice di morte. Alla vigilia del Natale delle Chiese che seguono il calendario giuliano – e il giorno dopo i funerali di Benedetto XVI, che ha avuto a cuore fin da subito il dramma ucraino – l’atmosfera è quella di una tragedia che, laddove la fede la illumina e la prossimità la scalda, riesce a trovare inattesi squarci di sereno. Come nel coraggio di un monastero che si fa carico di sfamare e assistere una comunità di persone senza più nulla. O nella solidarietà dei doni natalizi, che diventano pacchi solidali per chi sopravvive sulla linea dei bombardamenti. Buio, freddo e calore umano e di un grande affetto per il Papa emerito: di questo parla ai media vaticani l’arcivescovo maggiore di Kiev-Halyč Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina.
Sua Beatitudine, a Natale si festeggia la nascita del figlio di Dio. Probabilmente in tempo di guerra, quando tante persone perdono la vita, è difficile provare la gioia propria del tempo di pace. Come cambia il senso di Natale in questo contesto?
Quando sentiamo la parola Natale, salgono alla nostra mente i sentimenti e le immagini più belle della nostra infanzia: sentimenti del calore umano, di pace, di gioia, la presenza dei nostri genitori… È una festa di famiglia. Purtroppo, il Natale festeggiato in un contesto di guerra sfida certamente questa immagine. Oggi in Ucraina molti non possono più avere tutta la famiglia riunita insieme per la cena di Natale. Praticamente in ogni famiglia c’è qualcuno che combatte al fronte e molte quindi piangono quest’anno la perdita dei loro cari: tante famiglie sono separate, mogli con bambini sono state costrette a lasciare le loro città, il loro Paese, e i mariti che stanno difendendo in armi la patria e lottano per il futuro.
Adesso in Ucraina c’è molta paura per i continui attacchi missilistici, per i droni “kamikaze” che si abbattono sulle nostre teste ogni giorno. Siamo al buio, al freddo. E dunque l’immagine del Natale che ci portiamo dalla nostra infanzia viene sfidata o completamente smontata. Eppure, anche nelle condizioni di guerra, il Signore ci sta rivelando un altro significato di questa festa: stiamo imparando a considerare l’evento della nascita del nostro Salvatore tra gli uomini non semplicemente dal punto di vista umano, ma da quello divino: non una festa umana, un party che si festeggia tante volte, ma un senso eterno del Natale, valido per tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutte le culture.
Vediamo che il Signore è entrato nella storia umana per solidarizzare con tutti, con noi che soffriamo. Lui per primo ha sperimentato il buio e il freddo del Natale perché non ha trovato posto nel cuore delle persone, nella società umana. Lui per primo si è fatto povero davvero, svuotato della gloria celeste per condividere la povertà con i poveri: è nato in un presepe, in una grotta buia, ha accettato di essere avvolto da un corpo, di essere come gli esseri umani, legato ai pannolini, e così sciogliere tutto quello che ci rende schiavi. Lui, eterno Re di gloria, rispetta il decreto di Cesare del censimento proclamato dal potere umano. Lui, Signore della storia, si fa schiavo per liberare dalla schiavitù tutti quelli che si sentono oppressi dal potere umano ingiusto. E perciò dal punto di vista del Divino, il significato di questa festa ci ispira sul serio, perché gioire nei contesti di guerra è umanamente impossibile, ci viene da piangere, questo è il primo sentimento. Ma vediamo che anche tra le lacrime nasce la gioia, quella divina, non umana, perché proprio gli angeli cantano: “Gloria nell’alto dei cieli”. In quella terra sfidata dalla guerra, gli angeli annunciano la pace agli uomini amati da Dio, la benevolenza divina. L’annunciano a noi, che siamo stati veramente derubati di tutto: della pace, delle nostre case, dei nostri beni terreni. e il Re eterno di gloria viene per condividere i beni eterni con noi che viviamo al buio, senza riscaldamento a causa degli attacchi missilistici. Viene per essere Lui stesso la nostra luce, la nostra speranza. Figuriamoci come potranno festeggiare questo Natale i nostri fratelli e sorelle nelle zone occupate, dove non avranno possibilità di andare alla Liturgia. Figuriamoci come festeggeranno i nostri fratelli e sorelle che sono stati messi in carcere dagli occupanti russi e torturati, o come festeggeranno le centinaia di migliaia di persone mandate via delle loro case. Ma il Signore nascerà lì fra di loro e sarà la nostra gioia. Perciò il Natale ci sarà nonostante queste circostanze così drammatiche e il Signore stesso sarà la nostra gioia, la nostra luce e la nostra speranza.
Proprio considerando i gravi problemi di elettricità e riscaldamento che patite a causa degli attacchi missilistici, come avete intenzione di festeggiare il Natale quest’anno?
Dal punto di vista spirituale e teologico, vediamo che il Natale è un momento di scambio di doni. Dio in Gesù Cristo si è fatto povero per arricchire i poveri, si è fatto uno fra noi, uno schiavo per liberarci dalla nostra schiavitù e oppressione. Ecco perché sempre nel contesto dei festeggiamenti natalizi, c’è anche la tradizione dello scambio e della condivisione dei beni. In Ucraina abbiamo l’antica tradizione di cantare inni natalizi chiamati “kolyady”. Gruppi di cantori con la stella di Betlemme vanno di casa in casa per portare auguri e benedizione in tutte le famiglie e ogni persona aspetta a casa con entusiasmo questi cantori, perché sono considerati messaggeri della benedizione divina a cui, in cambio, vengono donati dei regali. Bene, quest’anno i doni che questi cantori raccoglieranno andando a portare ovunque la gioia natalizia, li condivideranno con i più poveri, chi si trova nella necessità più estrema, per portare assistenza a coloro che vivono sulla linea del fronte, perché molti civili non si sono spostati dai loro villaggi. Nel linguaggio militare la linea del fronte viene chiamata il “livello zero” o “punto zero” e i nostri cantori andranno proprio lì, a portare canti assieme a segni più tangibili di solidarietà: vestiti, generatori elettrici, aiuti umanitari. Vivremo davvero uno scambio di doni, vedendo in esso non soltanto un semplice aiuto umanitario ma soprattutto un profondo significato spirituale, una solidarietà che salva la vita. Dio, incarnandosi, si fa solidale con l’umanità e noi festeggiando questa festa dobbiamo essere portatori della solidarietà umana e cristiana con tutti quelli che sono piombati nella povertà più dura causata dalla guerra.
Il Natale, ha detto, è il tempo dello scambio dei doni e della solidarietà con gli ultimi ed emarginati e adesso in Ucraina sono molti. Ci sono categorie di persone per le quali vorrebbe sollecitare un’attenzione particolare?
Un terzo della popolazione è sfollata all’interno del Paese. È un grandissimo numero, si tratta di milioni di persone, nessuno conosce il numero preciso. Ma devo sottolineare che in Ucraina non c’è nessun campo profughi né zone di sfollati, perché tutta questa gente viene ricevuta, accolta e reinserita nel tessuto sociale lì dove si trovano. Ovviamente questo non è un lavoro facile. La maggior parte di loro sono bambini, donne e anziani, i più vulnerabili della società. Poi abbiamo anche un gran numero di feriti bisognosi di assistenza medica qualificata e di accompagnamento psicologico. Quindi, curare le ferite di questo popolo oggi è una grande sfida per tutti: per la Chiesa, che offre l’accompagnamento spirituale, per gli psicologi e i medici.
Inoltre, come detto, tanti sono pure coloro che ora sono nell’indigenza. Recentemente ho visitato i villaggi nella regione di Kherson, recentemente liberati: la gente che vi è tornata li ha trovati completamente distrutti. Immaginate come uno può passare l’inverno in una casa senza tetto, ma loro non hanno altri posti dove andare. Con il sussidio che ricevono dallo Stato non ce la fanno a sopravvivere nelle grandi città, perciò è gente che ha bisogno di un aiuto concreto là dove vive. Tanti cercano di tornare a casa, anche se a volte è pericoloso, e queste sono le categorie di persone al centro della nostra attenzione, cristiana e umana. Cerchiamo di stargli vicino, di accompagnarli con quello che possiamo, anche grazie all’aiuto della Chiesa di ogni parte del mondo. Molti in Germania, in Francia, in Italia e in altri Paesi del mondo hanno pensato all’Ucraina festeggiando il Natale e siamo veramente grati a tutti loro per aver avuto un pensiero per chi sta soffrendo.
Dall’inizio della guerra la Chiesa greco-cattolica ucraina sta lavorando molto per aiutare le vittime, gli sfollati e i feriti. C’è un esempio particolare di un contributo che la vostra Chiesa sta offrendo per alleviare i bisogni della gente, sia concreti che spirituali?
Sin dallo scoppio di questa guerra su vasta scala abbiamo preso alcune decisioni che, secondo me, sono state molto importanti per tutti noi. La prima è stata quella di restare vicino al nostro popolo. Rimaniamo sul posto, anche se talvolta a costo della vita. E così i nostri vescovi, monaci, sacerdoti sono rimasti nelle loro parrocchie, i vescovi nelle loro sedi. Posso fare tre esempi molto concreti e tangibili. Il primo riguarda la città di Kharkiv che si trova a 20 km dal confine con la Russia. Era la più esposta agli attacchi e fino a oggi resta uno dei bersagli principali dei bombardamenti. In questa città la nostra Chiesa sta costruendo la cattedrale, non è ancora completata, ma il seminterrato è già stato abilitato per i servizi liturgici. Il cardinale Leonardo Sandri, durante sua ultima visita in Ucraina, ha visitato questa chiesa che adesso è diventata un deposito di aiuti umanitari. Potete immaginare: l’interno di una cattedrale che dal pavimento alla cupola è piena di pacchi di aiuti umanitari. Diciamo, che è un centro logistico di distribuzione, perché dalla Polonia o dall’Ungheria fino a Kharkiv sono quasi 3.000 km, è un viaggio molto lungo. E lì, in questa cattedrale in costruzione, tre volte a settimana arrivano tra le 2 e le 4 mila persone per ricevere i viveri, il pane per sopravvivere, perché la città è distrutta, il lavoro non c’è, i negozi sono semichiusi e anche se hai dei soldi non puoi comprare quello che ti serve. E il nostro vescovo, Vasyl Tuchapets, è rimasto lì, sotto i bombardamenti, e distribuisce cibo a questa gente. Senza la sua presenza lì noi non saremmo stati capaci di organizzare questi centri logistici per far arrivare gli aiuti.
L’altro esempio è il monastero basiliano a Kherson, una città che era stata occupata. Io ricordo che fino a maggio era possibile inviare lì del denaro, ma non si potevano più destinare gli aiuti umanitari. In pratica a un certo momento i padri basiliani potevano ricevere i soldi tramite una banca ucraina del posto, che ancora funzionava, e poi con quei soldi comprare dagli agricoltori locali le cose necessarie per sfamare la gente, facendo felici anche gli agricoltori stessi che altrimenti non avrebbero avuto a chi vendere i loro prodotti. In questo modo, grazie al funzionamento di questo monastero si è mantenuta una microeconomia nella zona occupata. I padri sono stati minacciati molte volte con delle perquisizioni. Noi abbiamo pregato tanto per loro, soprattutto nel momento in cui il fronte passava per quella zona. Due settimane prima della liberazione avevamo perso ogni contatto anche telefonico con loro, perché i russi avevano distrutto ogni traliccio di telefonia mobile. Poi quando sono riusciti a contattarci, abbiamo appreso che erano tutti sopravvissuti, che il monastero è sopravvissuto, e che la gente dei dintorni ce l’ha fatta proprio grazie alla presenza del monastero. Per noi è stato un momento di grandissima gioia.
Il terzo esempio è la città di Berdyansk, sul Mare di Azov, che è ancora occupata. Lì due sacerdoti redentoristi erano rimasti gli unici in zona a celebrare per la nostra gente sia le Messe in rito latino sia le liturgie di rito bizantino. Sono stati arrestati e adesso si trovano in una prigione russa. Abbiamo notizie che entrambi sono stati torturati affinché confessino colpe che non hanno commesso. Hanno inventato che avrebbero trovato armi nella chiesa. Il loro è un caso molto doloroso, stanno vivendo un vero e proprio martirio, e dunque facciamo con insistenza appello a tutti – ai rappresentanti del corpo diplomatico, agli organismi internazionali – affinché questi sacerdoti possano essere liberati, perché l’unica loro “colpa” è stata quella di pregare con il proprio popolo.
Come vede, sono tre esempi di gravità crescente. Grazie a Dio, Kharkiv non è mai stata occupata, Kherson prima occupata e poi liberata e Berdyansk è ancora sotto occupazione, dove i sacerdoti e la loro gente sono vittime di brutalità.
Sua Beatitudine, qual è il suo appello al mondo a quasi 11 mesi dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina?
Sono due i messaggi chi vorrei trasmettere in questo momento. Il primo messaggio: non considerate la guerra in Ucraina come la guerra ucraina. No, si tratta veramente di una guerra che sta sfidando l’ordine mondiale perché si tratta di crimini non soltanto contro il diritto internazionale, ma contro l’umanità. Se noi all’inizio del terzo millennio non saremo in grado di fermare l’aggressore – un Paese più forte e più grande che aggredisce deliberatamente il suo vicino più piccolo e più debole – allora la civiltà del nostro mondo è seriamente minacciata. Ogni giorno si commettono crimini contro l’umanità e se questi crimini non saranno condannati come tali, noi non saremo poi in grado di assicurare una convivenza pacifica sul pianeta. Perciò ha ragione Papa Francesco quando dice che oggi abbiamo a che fare con una terza guerra mondiale a pezzi. E il secondo messaggio è: non stancatevi dell’Ucraina. Anche se la guerra sparisce delle notizie, dai media, non è umano né cristiano dimenticare questo dolore. Non lasciateci soli, non vi dimenticate di noi. Facciamo insieme di tutto per fermare questa guerra. E noi siamo in grado di farlo, ne sono convinto, ma non dobbiamo essere indifferenti. Non possiamo tacere quando la terra, o per meglio dire il sangue innocente grida con la voce di Abele verso il Creatore.
Sabato scorso è venuto a mancare Benedetto XVI. Ricorda il suo ultimo incontro con lui? Cosa Le è rimasto nel cuore?
Per me l’immagine di Benedetto XVI è stata e sarà sempre quella di un padre e di un maestro di vita cristiana. La mia esperienza con lui è quella della fiducia che un padre può avere nei confronti del suo giovane figlio. Io sono stato fatto vescovo da lui e per quasi un anno sono stato il più giovane vescovo di tutta la Chiesa, in quel momento avevo 38 anni. Un anno dopo lui stesso mi ha fatto anche amministratore dell’eparchia di Buenos Aires, anche in quel caso il più giovane del mondo. Poi il nostro Sinodo dei vescovi mi ha eletto come capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, ero sempre il più giovane vescovo fra tutti, e Papa Benedetto ha avuto il coraggio di confermare tale elezione. Ricordo questo incontro: un giovanotto appena eletto come capo della Chiesa [greco-cattolica] che incontra il Santo Padre… In quel momento veramente nei suoi occhi ho visto tutta la forza del Successore di Pietro, la forza della pietra sulla quale potevo sempre appoggiarmi. E lui, nel rapportarsi con me, è stato proprio così: da una parte mostrandomi una grande fiducia, dall’altra sostenendomi con un’intelligenza umile che è stata capace di consigliare, accompagnare e aiutare anche nei tempi difficili.
All’inizio di questa guerra il Papa mi ha scritto una lettera – una lettera che lui ha voluto che rimanesse una lettera privata, quasi confidenziale – che rivelava come avesse capito fin da subito cosa stesse accadendo, chi fosse la vittima e chi stesse compiendo “simili misfatti”. Nella sua lettera ha espresso una grande solidarietà con il nostro popolo sofferente, con la nostra Chiesa. È stata una provvidenza divina che durante la mia ultima visita a Roma, lo scorso novembre, io abbia potuto visitarlo. Sono stato uno degli ultimi che Papa Benedetto abbia potuto ricevere. Lucidissimo di mente, si è dimostrato molto empatico con la sofferenza del nostro popolo. Mi ha detto così: “Io prego e vi posso assicurare che la mia preghiera è la preghiera per l’Ucraina”. Davvero abbiamo avuto un angelo custode qui in terra nella persona del Papa Benedetto e sono sicurissimo che lui continuerà a esserlo, il nostro intercessore presso Dio per l’Ucraina che soffre.