Michele Raviart – Città del Vaticano
L’avevano chiamata “Antifaschistischer Schutzwall”, “barriera di protezione antifascista”, la recinzione di filo spinato apparsa nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961 per separare il settore di Berlino est controllato dall’Unione Sovietica da quelli controllati a ovest da Stati Uniti, Regno Unito e Francia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nasceva così, sessant’anni fa, il Muro di Berlino, il simbolo più tangibile della separazione del mondo in due blocchi durante la Guerra fredda e per 28 anni cicatrice viva all’interno della grande città tedesca.
Un popolo diviso
Occupata dagli alleati nel 1945 e sconfitto il regime nazista, nel 1949 la Germania era già divisa in Repubblica federale tedesca (BRD) ad ovest e Repubblica democratica tedesca ad est (DDR). La parte ovest di Berlino era quindi un’exclave occidentale nella capitale della DDR e già negli anni precedenti era fallito il tentativo dell’Urss di allontanare le altre potenze dalla città – il blocco di Berlino aggirato ad ovest con il ponte aereo durò più di un anno tra il 1948 e il 1949.
La “striscia della morte”
Presentato dai comunisti come una struttura difensiva per evitare l’invasione, il filo spinato, che già dal 15 agosto 1961 venne sostituito da prefabbricati in cemento e pietra, fu eretto soprattutto per evitare l’esodo dei berlinesi da est a ovest. Si calcola che dal 1948 al 1961 già circa due milioni e mezzo di tedeschi passarono nei territori amministrati dalle potenze occidentali, ma nemmeno il muro, che nella sua massima estensione misurava 156 chilometri ed alto 3,6 metri, riuscì a fermare i cinquemila berlinesi che sopravvissero alla traversata. Tra le 192 e le 239 furono infatti le vittime – imprecisato quello dei feriti – tra le persone che non superarono la “striscia della morte”: oltre cento chilometri di fossato anticarro, circa 300 torri di guardia con cecchini armati, 20 bunker e una strada di pattugliamento notturna ancora più lunga del muro.
Le commemorazioni in Germania
Tra i morti anche il 18enne Peter Fechter, che il 17 agosto del 1962 fu fucilato durante il suo tentativo di attraversamento della striscia della morte e lasciato morire dalle guardie di confine. Sulla sua stele questa mattina il sindaco di Berlino Micheal Mueller, insieme al presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeir depositerà una corona di fiori, una delle tante celebrazioni della giornata insieme al minuto di silenzio al Memoriale del Muro e alla commemorazione di tutti i morti nell’attraversamento della cortina di ferro, che svolgerà in una torre di guardia di confine nello Stato di Brandeburgo.“E’ stato un evento decisivo per la nostra città e per il nostro Paese”, ha commentato in questi giorni il sindaco Mueller, ricordando “la sofferenza umana che la divisione della città e del Paese ha portato con sé, con la separazione di famiglie, amici e conoscenti e con la perdita di occasione e opportunità di viaggiare”.
Un simbolo lacerante
“Il Muro di Berlino”, aveva ricordato Papa Francesco ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede durante gli auguri per il nuovo anno del 9 gennaio 2020, “rimane emblematico di una cultura della divisione che allontana le persone le une dalle altre e apre la strada all’estremismo e alla violenza”. Il novembre precedente, infatti, ricorreva il trentennale della caduta del muro, “che ci ha posto dinanzi agli occhi uno dei simboli più laceranti della storia recente del continente, rammentandoci quanto sia facile ergere barriere”.
Ci vogliono ponti, non muri
Costruire ponti, non erigere muri è uno dei temi ricorrenti del pontificato di Francesco, che sempre in quell’occasione ricordò che “alle barriere dell’odio, noi preferiamo i ponti della riconciliazione e della solidarietà, a ciò che allontana preferiamo ciò che avvicina”. Dopo lo storico incontro di Abu Dhabi, nell’incontro con i giornalisti sul volo di ritorno dal Marocco, il 31 marzo 2019, sottolineò “che ci vogliono dei ponti e sentiamo dolore quando vediamo le persone che preferiscono costruire dei muri”, perché “coloro che costruiscono i muri finiranno prigionieri dei muri che hanno costruito. Invece quelli che costruiscono ponti, andranno tanto avanti”. “Il ponte è per la comunicazione umana”, disse, “invece i muri sono contro la comunicazione, sono per l’isolamento e quelli che li costruiscono diventeranno prigionieri”. “Una persona che pensa soltanto a fare muri”, disse perentoriamente di ritorno dal viaggio apostolico in Messico il 17 febbraio 2016 “e non a fare ponti, non è cristiana”.
La preghiera silenziosa del Papa a Betlemme
I muri infatti non solo simboli di una cultura della separazione e dell’odio di una persona con l’altra, ma anche luoghi fisici di sofferenza. Da quello al confine tra Stati Uniti e Messico, a quelli a Ceuta e Melilla, a quello di divisione tra Israele e lo Stato palestinese. Proprio lì, a Betlemme, il 25 maggio 2014, sulla strada verso la Piazza della Mangiatoia, Papa Francesco scese dalla sua auto e si avvicinò al muro appoggiandosi con la mano e sostando in preghiera per qualche minuto.