Le testimonianze di chi ha organizzato il pellegrinaggio di 190 superstiti del disastro del 6 ottobre 1963, il vescovo Marangoni e il sindaco e presidente della Provincia di Belluno: se oggi a Longarone siamo 5mila, lo dobbiamo alla voglia di rinascere di tanti. Il sopravvissuto Renato Migotti: grande capacità di ricostruzione anche sociale, ma continuiamo a soffrire
Alessandro Di Bussolo e Alvise Sperandio – Città del Vaticano
“Semi di risurrezione” a Longarone, il paese sul Piave travolto dall’ondata assassina del 9 ottobre 1963, e nei borghi vicini, che piansero 1.917 vittime, sono anche i cento giovani di tutta Italia, invitati dal sindaco e presidente della Provincia di Belluno Roberto Padrin, che ad aprile visiteranno i luoghi della memoria e “prepareranno un ‘Manifesto della montagna’, che parlerà di rispetto del nostro ambiente unico”. Giovane come loro era anche Renato Migotti, che aveva 16 anni quando l’ondata fuoruscita dalla diga del Vajont, che è ancora al suo posto, uccise i suoi genitori e suo fratello, lasciando in vita, miracolosamente, lui e la sorella. E oggi, che ha da poco lasciato la presidenza dell’Associazione “Vajont-il futuro della memoria” al quarantenne Michele Giacomel, ci dice che la rinascita si riconosce nei superstiti, capaci di una “ricostruzione sociale, civile e morale del paese e della comunità” pur continuando a soffrire, sessant’anni dopo.
Padrin: dopo il grande dolore, la grande volontà di rinascere
Il Papa, nell’udienza a 190 rappresentanti della popolazione colpita dalla tragedia, nel sessantesimo anniversario, ha detto che questi “semi di resurrezione”, anche se non fanno molta notizia, sono “preziosi agli occhi di Dio”. E Roberto Padrin, raggiunto alla fine dell’incontro con Francesco, ricorda il grandissimo dolore provocato da quel disastro, ma anche “la grandissima dimostrazione di volontà di ripartire, di ricostruzione. Sono valori che il Papa oggi ha esaltato e che hanno permesso a Longarone di ripartire e di rinascere. E oggi, se siamo una comunità di circa 5.000 persone, lo dobbiamo proprio a tutte queste persone e a tutti coloro i quali ci hanno aiutato nel corso degli anni”. Il sindaco e presidente della Provincia bellunese sottolinea infine che la memoria del Vajont deve portare a riflettere sul dolore provocato dall’uomo, “quando ha voluto mettere il profitto davanti a tutto e tutti”.
Il vescovo Marangoni: i volti di queste persone dicono speranza
Al termine dell’incontro col Pontefice e prima di celebrare la Messa per i pellegrini bellunesi all’Altare della Cattedra in San Pietro, ecco anche la testimonianza del vescovo di Belluno-Feltre Renato Marangoni, pastore di queste genti dal 2016, che riconosce nella fraternità che costruisce, mentre “l’avidità distrugge”, la parola che sgorga da questa giornata e dalle celebrazioni del sessantesimo della tragedia. Il presule dice di essere stato colpito dalle tante parole di gratitudine che Papa Francesco ha rivolto ai sopravvissuti del Vajont. E dalla sua ammirazione per “la consistenza benefica e tenace del vostro tessuto comunitario”. Quella di Longarone “è una storia di una comunità che ha dovuto ripartire quasi da zero – ricorda – c’era sì tutto il bene precedente, ma quella distruzione ha davvero rotto dei rapporti, delle relazioni, forse anche delle ragioni di vita che hanno dovuto essere riprese. E quindi questa storia dei 60 anni è portata nei cuori e soprattutto nei volti di queste persone che ora ancora dicono speranza, pur nella memoria e nella consapevolezza di ciò che è capitato”. La montagna, conclude, rende molto più faticoso “il quotidiano costruire la vita comunitaria, e questo lo si vede” ma alla fine si realizza con “una maggiore profondità e intensità, anche di pensiero e di cuore”.
Migotti: una tragedia immane, che non ho ancora superato
Sempre prima della celebrazione nella Basilica di San Pietro, l’incontro con Renato Migotti, 76 anni, già presidente dell’Associazione “Vajont-il futuro della memoria”.
Il Papa ha parlato di “semi di resurrezione” dopo la tragedia del Vajont. La sua, possiamo dire, è una storia di resurrezione? Cosa è successo alla sua famiglia il 9 ottobre 1963? Come avete ricostruito la vostra vita dopo quella catastrofe?
Il 9 ottobre 1963 ho perso i genitori ed un fratello. Mi è rimasta una sorella con cui poi ho ricostruito la vita, e nella maturità mi sono poi fatto una nuova famiglia. Allora io avevo 16 anni, ricordo perfettamente quello che mi è successo. Ma preferisco non parlare della mia esperienza personale, perché per me non è ancora superata del tutto. Oggi è stata una grande esperienza, molto emozionante aver assistito alle parole del Papa, il quale ha parlato appunto di resurrezione e di rinascita. È quella che si intravede, si riconosce nei superstiti dell’immane tragedia del Vajont, nella ricostruzione sociale, civile e morale del Paese e della comunità che ancora oggi soffrono, pur essendo passati 60 anni.
Ma lei si chiede ancora perché i responsabili della diga non hanno dato l’allarme in tempo e le autorità non hanno predisposto uno sgombero di Longarone, e per i Comuni della valle del Piave? Che risposta si dà?
E’ strano quello che è successo, ed è molto particolare. Mentre la gente di Erto e Casso (i comuni che si affacciavano sull’invaso della diga, n.d.r.) era stata sfollata la stessa giornata del 9 ottobre dalle zone che potevano essere interessate allo scivolamento del Monte Toc, a Longarone non si sapeva niente. La gente di Longarone era andata a dormire quella sera, come tutte le sere. Anzi, molta gente era scesa dai paesi vicini per assistere alla partita di calcio di coppe dai campioni. Longarone è stata travolta e ha subito purtroppo oltre 1500 morti…
Quindi una ragione non se la dà…
No, una ragione non me la do ed è uno dei motivi per cui noi dobbiamo assolutamente conoscere la storia della diga del Vajont. La storia del Vajont passa attraverso tre elementi fondamentali storici: il primo, aver costruito una diga in un luogo sbagliato e l’ha ricordato anche il Papa oggi. Il secondo è che avevano superato il livello di sicurezza, che alcuni tecnici avevano individuato in 700 metri. Ma il terzo, il più grave, quello di non aver sfollato la cittadinanza di Longarone e non aver previsto che la montagna, scendendo dell’invaso, avrebbe travolto chi era sotto.
Che effetto le ha fatto sentire dal Papa che è stata una tragedia “dell’avidità di profitto” e di mancanza del senso del limite?
E sicuramente quello che è successo. Perché se non ci fosse stata la volontà di realizzare il “Grande Vajont” quindi l’innalzamento del muraglione della diga di 60 metri nel secondo progetto e triplicare la capacità dell’invaso e quindi la possibilità di triplicare la produzione di energia elettrica, per avidità e profitto economico, tutta la tragedia non sarebbe capitata.
Che cosa fa oggi la vostra associazione e cosa fare in futuro per custodire la memoria e stimolare i giovani a costruire un mondo dove la cura del Creato e dell’uomo che ci vive sia al primo posto?
Noi siamo un’associazione che è nata 25 anni fa dalle ceneri di vari comitati nati per la rinascita dei paesi andati distrutti con il disastro del Vajont. Dopo 25 anni quasi di mia presidenza e passata una generazione, abbiamo deciso nel consiglio direttivo della nostra Associazione, in occasione del 60 simo del disastro, di trasferire il testimone della memoria proprio alle giovani generazioni. Quindi abbiamo cambiato la presidenza dandola a dei ragazzi giovani, (come in quarantenne Michele Giacomel, il nuovo presidente, n.d.r.)
Nelle celebrazioni per il 60.mo c’è stato un coinvolgimento dei giovani e non solo nell’associazione. Un interesse che va coltivato…
Quelle celebrazioni hanno dimostrato un notevole coinvolgimento principalmente attraverso i mass media e attraverso i molteplici eventi che sono stati prodotti appunto in memoria del disastro del Vajont e in questo c’è stata una grossa sensibilizzazione verso i giovani, verso le scolaresche, verso la scuola e gli istituti superiori.