di Andrea Monda
«Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6, 26). La parola di Dio che è sempre «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» davvero «penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla» (Eb 4, 12) e ci pone di fronte a un bivio, da una parte i segni, dall’altra i pani, meglio: da una parte la cecità ai segni e dall’altra la fame di cose materiali. Ieri durante l’Angelus domenicale Papa Francesco ha osservato che la gente di cui parla il brano evangelico, pur avendo assistito al prodigio della moltiplicazione dei pani, «non aveva colto il significato di quel gesto: si era fermata al miracolo esteriore, si era fermata al pane materiale: soltanto lì, senza andare oltre, al significato di questo». Questa fede è superficiale, soggetta ad una «tentazione idolatrica», una fede che secondo il Papa «rimane miracolistica: cerchiamo Dio per sfamarci e poi ci dimentichiamo di Lui quando siamo sazi. Al centro di questa fede immatura non c’è Dio, ci sono i nostri bisogni».
Su questa “immaturità” fa leva il Tentatore sin dall’inizio, quando invita Adamo ed Eva a “mangiare tutto” il creato, a consumarlo subito e totalmente, dimenticando che esso è segno della bontà del Creatore (anzi guardando con sospetto a quel di-segno), e anche dopo con Gesù stesso sfidandolo a trasformare le pietre in pane. Il risultato di queste tentazioni idolatriche lo sappiamo: la perdita della libertà, della confidenza filiale con Dio e quindi della dignità stessa che è propria della creatura umana. Come dice il Grande Inquisitore di Dostoevskij a Gesù che torna nella Siviglia del ’500: vi sono tre forze in grado di togliere la libertà all’uomo: il miracolo, il mistero e l’autorità. È terribile questa ambiguità del miracolo, non a caso proprio il Vangelo di Giovanni chiama i “miracoli” con quest’altra, decisiva, parola: “segni”. Il mondo è un universo di segni e di simboli, si tratta di far crescere e maturare quella capacità di visione che coglie nella realtà il significato ulteriore.
Tutto questo è espresso molto bene dal poeta polacco Czesław Miłosz nella poesia Il senso quando parla dell’altra parte, la «fodera del mondo» che si cela «dietro l’uccello, la montagna, il tramonto», è lì che si trova «Il vero significato che vorrà essere letto». Quando lo leggeremo avverrà che «Ciò ch’era inconciliabile si concilierà / E sarà compreso ciò ch’era incomprensibile». Ma fino a quando viviamo corriamo il rischio di non cogliere questo significato e di vivere nel dubbio: «Ma se non c’è una fodera del mondo? / se il tordo sul ramo non è affatto un segno / ma solo un tordo sul ramo, se il giorno e la notte / si susseguono senza badare a un senso / e non c’è nulla sulla terra, oltre questa terra?». Un dubbio che può diventare disperazione avverte il poeta nella lirica Speranza: «Taluni dicono che l’occhio ci inganna / E che non c’è nulla, solo apparenza. / Ma proprio questi non hanno speranza. / Pensano che appena l’uomo volta le spalle / Il mondo intero più non sia, / come da mani di ladro portato via». La parola di Dio è allora come un “antifurto” che impedisce alla tentazione di vincere la nostra debolezza e di farci rimanere nella speranza che, dice Miłosz: C’è, quando uno crede / Che non un sogno, ma corpo vivo è la terra, / E che vista, tatto e udito non mentono. / E tutte le cose che qui ho conosciuto / Son come un giardino, / quando stai sulla soglia».