Chiesa Cattolica – Italiana

Scorci di Natale allo specchio, una storia dal braccio della morte

Sui media vaticani, uno dei racconti di Dale Recinella, ex avvocato della finanza di Wall Street che oggi, insieme alla moglie Susan, assiste i detenuti in Florida

di Dale S. Recinella

Sono passati più di tre decenni da quella mattina della vigilia di Natale del 1990. Niente avrebbe potuto prepararmi a questo. Supero la postazione delle guardie e prendo le mie chiavi della cappella.

Spirali di filo spinato sono ammucchiate in doppio strato sulle tre file di recinzione elettrificata. I denti grigio-argento brillano come ornamenti nell’aria frizzante del mattino. Una dozzina di detenuti mi scrutano dall’altra parte. Sono accalcati davanti al cancello che separa la cappella dal complesso carcerario.

“Buon Natale”, sorride la guardia.

Mi si stringe lo stomaco mentre lei preme il pulsante che sblocca le enormi serrature elettriche delle porte d’accesso in acciaio. Un forte rimbombo echeggia attraverso il passaggio. Entro nella prigione. Il nodo nella mia pancia si stringe.

I detenuti al cancello si percuotono le braccia per scaldarsi dal freddo di dicembre. Piccole nuvole di respiro incombono davanti alle loro tute azzurre.

Perché questa immagine mi dà fastidio? Da quasi un anno vengo ogni settimana in questa cappella della prigione. I dettagli non sono diversi dal solito. Questo dovrebbe essere solo un altro giorno come consigliere spirituale volontario presso l’Apalachee Correctional Institution della Florida. Ma questo non è solo un altro giorno. È la vigilia di Natale.

In questo preciso momento, sono stupito di non essermi mai chiesto com’è il Natale dietro le sbarre.

Gli appuntamenti in cappella con i volontari avvengono su presentazione di richieste scritte approvate dalla direzione del carcere. Apriamo la cappella. Un impiegato mi consegna l’elenco della giornata: 19 richieste. In una mattina normale sono cinque.

Telefono a mia moglie dall’ufficio del cappellano: “Stasera sarò qui fino alle 18”.

Ho sbagliato. Non chiuderemo la cappella che alle 21,30 della notte della vigilia di Natale. Ma non potevo aspettarmi una cosa del genere. Questa è la mia prima volta in prigione la mattina prima di Natale.

Mi metto al lavoro con un caffè e il mio primo appuntamento con il detenuto alle 8:30. Preghiamo e chiedo: “Che cosa hai nel cuore stamattina?”

“Dammi un motivo per non andare contro il muro”, sussurra.

Sappiamo entrambi che l’espressione fa parte del gergo carcerario e significa fingere un tentativo di fuga davanti alle guardie, nella speranza che debbano ucciderti. Si dice che gli uomini abbiano fatto cose del genere quando hanno ricevuto una lettera dalla moglie che annuncia la richiesta di divorzio, o quando hanno saputo della morte del loro figlio. Il Natale qui è così doloroso?

Un uomo dopo l’altro. Una camicia azzurra dopo l’altra. Parliamo, piangiamo, preghiamo. Assassini. Stupratori. Molestatori. Nessuno da chiamare a Natale. Nessuno a cui scrivere. Nessuno da vedere. I loro figli separati dai tribunali e adottati da altri uomini. O la loro famiglia troppo lontana per far loro visita.

Verso le 17 dico agli impiegati della cappella che abbiamo bisogno di più Kleenex della prigione. I rotoli di carta igienica che abbiamo aperto quella mattina sono tutti esauriti.

Il mio ultimo appuntamento, un uomo intelligente e loquace, mi ha incontrato regolarmente tutto l’anno.

“Non sto dicendo che non dovrei essere qui”, le lacrime gli riempiono gli occhi, “Ho fatto cose terribili e non so nemmeno perché. Posso capire perché la società mi vuole all’interno di questo recinto. Sarò qui il resto della mia vita. Ma sono un essere umano. Ho ancora bisogno di amici e di rapporti con persone normali. Sono un cristiano battezzato e praticante. Natale è il nostro giorno. Dove sono i cristiani?”

La mia risposta traballante riguardo alle persone che confondono la compassione verso chi sbaglia con l’approvazione del loro cattivo comportamento lo fa ulteriormente arrabbiare.

“Gesù ha detto che quando i suoi seguaci visitano un detenuto, visitano Lui!”, afferra il rotolo di carta con entrambe le mani. “Gesù non ha detto che il detenuto dovesse essere innocente. Perché nessuno va a trovare Gesù a Natale?”

Distogliendo lo sguardo, balbetto: “Non lo so”.

Presto giunge il momento di lasciarci.

“Per cosa vuoi pregare?”, gli chiedo.

Si appoggia allo schienale della sedia, come se stesse parlando al soffitto: “Cosa voglio che Dio mi regali per Natale?”

“Certo”, rispondo.

“Che ogni Natale tutte le prigioni della Florida siano piene zeppe di cristiani che cercheranno di entrare per far visita a Gesù.”

“Fratello”, lo avverto, “questa preghiera potrebbe richiedere molto tempo per essere esaudita”.

Lui scrolla le spalle: “Sarò qui”.

Il sabato prima del Natale del 2001, mia moglie ed io facciamo visita ai detenuti ormai da oltre dieci anni. Abbiamo incontrato dozzine di guardie e di cappellani e centinaia di carcerati e personale. Un detenuto in particolare è diventato molto speciale, è come un fratello per noi. Il suo nome è Kenny.

La nostra famiglia è nel bel mezzo del viaggio di diverse ore dalla nostra casa di Jacksonville, in Florida, a una grande prigione di media sicurezza vicino a Pensacola, all’estremità opposta della Florida settentrionale. La distanza è di quasi 650 chilometri solo andata. Stiamo facendo la nostra visita di Natale a Kenny.

Dopo un pernottamento a Tallahassee, facciamo una rapida colazione e terminiamo la parte verso ovest del nostro viaggio. Arriviamo alla prigione subito dopo l’alba. Il debole sole di dicembre sta salendo, mentre ci mettiamo in fila per il cancello dei visitatori, aspettando il nostro turno per esibire i documenti di identità e svuotare il contenuto delle nostre tasche, toglierci le scarpe, attraversare i metal detector e alzare le braccia per una perquisizione completa del corpo. La prima volta la perquisizione di sicurezza per entrare in una prigione è stata un po’ snervante per mia moglie e i miei figli. Ormai ci siamo tutti abituati.     

La guardia che perquisisce i bambini è gentile e si ricorda sempre di noi: “Voi siete quella famiglia insolita. Quelli che non sono veramente una famiglia.”

“Siamo una famiglia, per certo”, rido. “La definizione con cui siamo chiamati è famiglia di tutoraggio cristiano. Ma a dire il vero, l’uomo che stiamo visitando ci insegna più di quanto noi potremmo mai insegnargli”.

Lei sorride con uno sguardo d’intesa. Le guardie sanno quello che la maggior parte di noi nella società libera non sa. La differenza tra alcuni di quelli all’interno e molti di noi all’esterno può essere davvero una linea sottile. Sottile come uno o due drink in più, o un’arma troppo a portata di mano in un impeto di rabbia. Abbastanza sottile perché i cristiani possano trovare la famiglia all’interno delle recinzioni di filo spinato.

Anche in carcere il Natale è il momento delle visite speciali alle persone care. Kenny ha risparmiato i soldi della mensa per una foto di Natale. Ci riuniamo intorno a lui, a braccetto, nell’angolo fotografico del parco visite della prigione.

“Fai un bello scatto!”, Kenny raccomanda severamente al detenuto con la Polaroid. “Questa è la foto di Natale della mia famiglia.”

Nel novembre del 2009 a Kenny fu concessa la libertà condizionale. Lo prelevammo all’Everglades Correctional Institution e lo portammo al suo programma di reinserimento a Jacksonville. L’anno successivo gli facemmo visita durante il suo programma di reinserimento a Jacksonville molte volte al mese, e da Natale 2009 fino alla sua morte nel 2021, tutte le sue foto natalizie sono state in abiti da persona libera. Si era anche unito a me a Louisville, nel Kentucky, per partecipare a un programma statale sulla fornitura di servizi di reinserimento. In quegli ultimi undici anni, Kenny visse una vita piena e dinamica, lavorando come ministro/custode della preghiera presso il Christian Healing Ministries, incontrando, corteggiando e sposando la sua meravigliosa moglie Cathy, svolgendo il ministero carcerario per conto della sua chiesa e sponsorizzando e assistendo numerosi uomini che passano dalla prigione alla libertà.

È difficile credere che questo meraviglioso servitore cristiano, che utilizzava tutte le sue energie al servizio di Gesù, avesse seriamente rischiato di finire sulla sedia elettrica negli anni ’80. Fu invece condannato all’ergastolo da una giuria divisa. Kenny fu definitivamente esonerato da qualsiasi vincolo condizionale il 22 maggio 2019, quindi visse gli ultimi due anni della sua vita da uomo totalmente libero. Ma non smise mai di cogliere ogni opportunità che gli si presentava per alleviare la sofferenza e rendere il mondo un posto migliore.

Ora, mentre il Natale del 2023 si avvicina rapidamente, non posso fare a meno di chiedermi: come mai noi che affermiamo di credere nel potere di redenzione di Gesù Cristo per noi stessi, osiamo negare questa possibilità agli altri, riducendo il tempo di vita, loro concesso da Dio, attraverso le esecuzioni? La nostra ultima esecuzione in Florida ci costringe letteralmente ad affrontare il danno che arrechiamo, negando agli assassini pentiti la possibilità di fare del bene, anche dall’interno del carcere. Questa domanda non è astratta. È concreta e reale. Il suo nome è Michael Zack.

La vita di Michael è una storia horror di abusi e traumi. Non ebbe mai la possibilità di sperimentare l’amore e la sicurezza di una famiglia premurosa e protettiva. Sì, è vero che nessuno ha un’infanzia perfetta, ma alcune persone sfortunate, come Michael Zack, sopportano un orrore insondabile già nel grembo materno (sindrome alcolica fetale), poi da bambini (vittima di tentato annegamento e ricovero ospedaliero per avvelenamento da alcol e overdose di droga, entrambi indotti da un assistente adulto), e casi estremi documentati di abusi fisici e torture. Da preadolescente, Michael subì il trauma dell’omicidio di sua madre con un’ascia, da parte di un fratello maggiore. Poi, lui e suo fratello furono mandati in un ospedale psichiatrico, e lui finì in affidamento, subendo continui abusi. Non sorprende che soffra di una serie di disturbi psicologici debilitanti.

Michael fu condannato per l’omicidio di due donne e inviato nel braccio della morte della Florida poco prima del Natale 1997. Lo incontrai durante i giri di cella in cella nell’autunno del 1998 e in breve tempo egli richiese consulenza pastorale e l’accesso ai riti di iniziazione cattolica per adulti. Strinse anche un rapporto paterno molto positivo con Padre Swavek, il prete di St. Mary’s di Macclenny che assiste i condannati a morte, che impartì i sacramenti di iniziazione al “ragazzo del Kentucky”.

Nella mia decennale esperienza di assistenza spirituale ai moribondi, sia in prigione che nella società esterna, niente definisce una persona tanto quanto i suoi ultimi atti. Anche se le ultime parole potrebbero non essere un sacramento canonico, io le considero con il massimo rispetto. Non preparo né suggerisco mai le ultime parole a un detenuto che rischia la morte naturale o l’esecuzione. Sono troppo personali. Se sono il consigliere spirituale dell’esecuzione, ascolto le ultime parole del condannato dalla sala dei testimoni, proprio come tutti gli altri. Lui ed io eravamo stati insieme all’inizio della giornata e insieme a Padre Swavek quando Michael ricevette l’Unzione degli Infermi.

È il 3 ottobre alle ore 18,00. Sto guardando Michael sulla barella attraverso la finestra di osservazione dal mio posto nella stanza dei testimoni dell’esecuzione. Come sempre la barella è circondata dal personale del Dipartimento penitenziario responsabile di questa uccisione. La sala dei testimoni è piena di personale statale e di familiari delle due vittime della sua follia criminale. L’avvocato principale di Michael, Linda McDermot, ed io siamo seduti nei posti dell’avvocato difensore e del consigliere spirituale.

A Michael viene chiesto: “Vuoi pronunciare un’ultima dichiarazione?”

Lui risponde: “Sì, signore”.

Michael alza la testa dalla barella e permette al suo sguardo di abbracciare l’intera camera delle esecuzioni e la stanza dei testimoni. Guarda ognuno di noi presenti e dice:

“Voglio bene a tutti voi.”

E poi lo uccidiamo.

Post scriptum: nella dichiarazione finale post-esecuzione preparata da Michael Zack e dai suoi avvocati e successivamente divulgata, sono state riportate più dettagliatamente le sue parole.

“Ventisette anni fa ero un alcolizzato e un tossicodipendente”, ha detto Zack nella dichiarazione. “Ho fatto cose che hanno ferito molte persone: non solo le vittime, le loro famiglie e i loro amici, ma anche la mia famiglia e i miei amici. Da allora mi sono svegliato ogni singolo giorno pieno di rimorso e con il desiderio che il mio tempo qui sulla terra significasse qualcosa di più della cosa peggiore che abbia mai fatto.” “Non trovo scuse”, ha aggiunto. “Non attribuisco alcuna colpa. Ma quanto vorrei poter avere una seconda possibilità, vivere i miei giorni in prigione e continuare a fare tutto il possibile per fare la differenza in questo mondo. A tutti i miei fratelli nel braccio della morte: continuate ad aiutarvi a vicenda”.

Michael Zack ha subito “abusi inimmaginabili”, hanno scritto le sue tre sorelle in una dichiarazione. Ha “fatto del suo meglio per proteggerci”, hanno scritto, “ciononostante abbiamo tutte cicatrici permanenti dovute ai traumi”.

“Siamo allineate nella convinzione che avrebbe dovuto rimanere separato dalla società, dove avrebbe dovuto affrontare la responsabilità delle sue azioni e mantenere la sobrietà che ha raggiunto negli ultimi 27 anni”.

“Tuttavia, il nostro amore per lui continua. Con la sua esecuzione, la nostra famiglia affronta un’altra perdita irrevocabile e profonda”.

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