Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Percorrendo il lunghissimo rettifilo di via Nazionale, quando ormai all’orizzonte distinguiamo molto bene l’Altare della Patria con le sue vittorie alate, passiamo accanto al grande Palazzo delle Esposizioni, costruito nel 1883, durante i lavori urbanistici umbertini che hanno trasformato la città per adeguarla al suo nuovo ruolo di capitale d’Italia.
Stretta tra questa massa bianca e quella di un’altra costruzione, affiora letteralmente dal ciglio della strada un tetto a doppio spiovente con una tettoia di mattoni, dai colori più scuri e antichi. A chi poi si avvicina e si affaccia dall’alto della scalinata, appare la visione affascinante di una chiesa come sprofondata, come un frammento di tempo che si è fermato. La chiesa, infatti, si trovava in origine a una quota diversa rispetto al piano stradale attuale, notevolmente più in alto. Non si tratta di “sedimentazione” naturale. Sempre i lavori per la via Nazionale innalzarono artificialmente il livello. Ci si arriva mediante una scalinata fatta costruire da Pio IX, nel 1859. Attualmente si può aggirare ogni barriera architettonica con un ascensore.
Il significato del nome “Fovea”
Il toponimo della chiesa di San Vitale e Compagni martiri in Fovea – quest’ultimo termine significa avvallamento, fossa – sembra non alludere alla posizione della chiesa, ma al tipo di martirio subito dal santo. Nelle fonti, infatti, non si trova questo nome, neppure riferito dall’abate Pompeo Ugonio, che nel 1588 pubblicò un’opera sulle chiese stazionali come si legge a margine di un dipinto nella chiesa che raffigura la scena del martirio di san Vitale, sepolto vivo in fovea, cioè nella fossa. Le caratteristiche dell’assetto moderno della basilica e le modalità del martirio sono una coincidenza che aggiunge ulteriore fascino e suggerisce l’idea che nulla succede per caso, specie quando di mezzo c’è la fede.
Le testimonianze più antiche ci parlano di un titulus Vestinae, proprietà di una ricca vedova romana che avrebbe donato i suoi gioielli per la costruzione del luogo di culto pubblico. Primo costruttore fu sant’Ambrogio nel 379. La basilica fu ristrutturata con tre navate, consacrata nel 402 da papa Innocenzo I e inizialmente dedicata ai martiri Gervasio e Protasio, figli di Vitale. Ancora nel sinodo del 499 appare con il titolo della matrona romana, mentre nel 595 con quello di titulus Sancti Vitalis.
Il legame con la Salus Populi Romani
In onore di Vestina, Gregorio Magno volle che da questa chiesa partisse il corteo delle vedove che andava a unirsi alla Litania settiforme, che vediamo descritta dalle fonti, specialmente in occasione di quella solenne che attraversò le vie della città con l’icona della Salus Populi Romani, l’immagine della Vergine con il Bambino di Santa Maria Maggiore, per chiedere al Signore la grazia di far cessare la peste nel 590. Il legame con la basilica dedicata alla Vergine non è solo testimoniato dai suoi sacerdoti che venivano a celebrare la messa qui ma anche, oggi, da una perfetta riproduzione dell’icona oggi esposta presso l’altare maggiore.
La basilica ebbe successivi rifacimenti e abbellimenti fino al 1475 e poi nel 1595, questi ultimi dopo la cessione della chiesa ai Gesuiti da parte di Clemente VIII Aldobrandini. In questa occasione le navate furono ridotte a una sola e il protiro paleocristiano chiuso e trasformato in vestibolo, poi restituito alla fine degli anni Trenta del secolo scorso.
Dai battenti della porta d’ingresso, con scene della vita di sant’Ignazio di Loyola, ai dipinti murali che si susseguono all’interno della chiesa, è tutto un racconto in aderenza alle linee dettate dalla Controriforma.
Cristo caduto sotto la croce, al centro di un’affollata composizione, campeggia nell’abside, mentre nel giro inferiore vi sono le scene del martirio dei primi titolari della chiesa, Gervasio e Protasio, opere datate tra il 1560 e il 1638, di Andrea Commodi, interprete fiorentino dell’arte della Controriforma. Lungo le navate, dentro cornici dorate accompagnate da un cartiglio che ne illustra il soggetto, scene di martirio e in particolare di san Vitale, eseguite da Agostino Ciampelli, altro fiorentino manierista tra il 1577 e il 1642.
I lievi e tragici quadri del Ligustri
Assai interessanti sono i dieci quadri con paesaggi vasti e delicati nei quali si muovono piccole figure, dove sono raffigurati altri martiri. Sono opere (1602?) del pittore viterbese Tarquinio Ligustri il cui soggetto è simile a quello dei famosi affreschi del Pomarancio a Santo Stefano Rotondo. Qui, però, i particolari cruenti sono risparmiati e prevalgono i verdi rigogliosi degli alberi o gli azzurri e i rosati del cielo e del paesaggio lontano, con rovine romane come il Colosseo. Eppure il risultato è più doloroso, tragico. Sembrerebbero ispirati ai panorami fantastici del fiammingo Paul Bril, che morì a Roma nel 1626, ma sono ancora più lievi, quasi acquerellati e le figure umane, risolte con rapide pennellate, ci lasciano sgomenti più che i vicini dipinti del Fiammiferi e del Ciamparelli, che si dispiegano con figure grandi a riempire tutto lo spazio, lasciando i particolari dell’ambientazione in secondo piano. Queste figurazioni avevano il compito di edificare gli animi nell’esempio dei santi e illustrare ai gesuiti, in procinto di partire per evangelizzare le Americhe o i Paesi protestanti, il loro compito: essere disposti a dare la vita nel nome del Signore.
Una famiglia unita nell’amore e nella fede
A raccontarci la storia di Vitale è sant’Ambrogio in una sua lettera, l’ Epistola Segregata II (LIII). Racconto ripreso dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Vitale era un ufficiale dell’esercito romano, che da Milano si era recato a Ravenna per scortare un giudice dove conobbe il medico cristiano Ursicinio, del quale martirio fu spettatore. Convertitosi a sua volta, subì anche lui a causa della fede una morte cruenta.
Alla moglie Valeria, che si recò a Ravenna per cercare il corpo del marito, toccò la stessa fine e così, dieci anni più tardi, ai due figli Protasio e Gervasio. Ambrogio ci racconta di una visione nella quale gli veniva rivelato il luogo di sepoltura dei due fratelli a Milano, ma nella tomba trovò anche un libretto firmato da Filippo servus Christi che parlava del padre e della madre.
Le vicende così intense colpirono profondamente il Vescovo di Milano e lo convinsero a portare anche a Roma la loro testimonianza e costruire la basilica che prende in nome di San Vitale in Fovea e dedicata anche ai compagni martiri.
Naturalmente non soltanto nella città lombarda ma anche a Ravenna, teatro dove si svolsero i fatti, il culto di questi santi è molto importante. Fu Galla Placidia, figlia di Teodosio I che si trasferì nella città da Milano a portare con sé le reliquie e a erigere la basilica di San Vitale, consacrata nel 548. Anche la basilica di Sant’Apollinare Nuovo rende omaggio all’intera famiglia, raffigurandola nel mosaico con la processione dei santi.