Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Arrivati in cima al colle Oppio, la facciata della chiesa, non spettacolare, anzi severa, percorsa da archi a tutto sesto aperti su una bassa scalinata, non lascia presagire la grandezza di quello che ci aspetta, né da un punto di vista storico artistico, né devozionale. Nella basilica, infatti, sono custodite importanti reliquie, come le catene di san Pietro e i corpi dei martiri Maccabei mentre in fondo alla navata destra risplende il monumento dedicato a Giulio II, opera di Michelangelo
Le catene di san Pietro
La chiesa insiste su strutture preesistenti, risalenti fin dal III secolo a.C. e via via mutate come nuove strutture e destinazione d’uso, come di consueto nelle stratigrafie romane. Nel IV secolo sorgeva un titulus dedicato agli apostoli, che venne distrutto per ragioni non chiare. Licinia Eudossia, figlia dell’imperatore Teodosio II e moglie di Valentiniano III, la fece ricostruire come basilica tra il 422 e il 470. Nella basilica, sotto l’altare, sono esposte le catene di san Pietro, composte da due serie diverse di maglie che si sarebbero saldate miracolosamente insieme quando papa Leone I le avvicinò tra loro. Un segmento di catena sarebbe per tradizione quello che avrebbe tenuto legato san Pietro nel carcere Mamertino in Roma, l’altro sarebbe stato portato a Roma dalla Palestina dalla stessa Eudossia, dopo averle ricevute nel 442 da sua madre Elia Eudocia, e sarebbero invece quelle che avrebbero avvinto Pietro durante la prigionia a Gerusalemme sotto Erode Agrippa. Tale miracolo si rivela di profondo significato simbolico e politico nel segno di una concordia auspicata non solo tra le Chiese orientale e occidentale ma anche tra le parti dell’Impero.
L’interno della chiesa è una commistione di stili: tra gli altri, preziose colonne di marmo greco forse provenienti dal Portico di Livia, rivestimenti di marmi antichi nell’area dell’ altare e affreschi cinquecenteschi nell’abside eseguiti da Jacopo Coppi, con scene relative alle Storie di San Pietro, Eudossia e la rara iconografia della Ricrocifissione di Beirut, peraltro tema proposto dallo stesso artista anche nella chiesa del San Salvatore a Bologna.
“Perché non parli?”
Nella basilica, in fondo alla navata destra, biancheggia il mausoleo dedicato a Giulio II, che doveva servire da sepolcro del papa che la commissionò a Michelangelo nel 1505, quando l’artista era diventato ormai celebre per aver scolpito il David a Firenze. Il progetto iniziale era grandioso, concepito come una grande camera mortuaria, con un portone chiuso circondato da una selva di statue. Mail papa venne assorbito dalla fabbrica di San Pietro in Vaticano, inoltre i costi onerosissimi del monumento, la morte dello stesso Giulio II, che fu invece sepolto nella nuova basilica, portarono a una serie di rallentamenti, divergenze e soprattutto a continui ridimensionamenti, per un totale di ben sei progetti diversi, fino al risultato che vediamo oggi. Mosè non era più associato a san Paolo, ma divenne figura centrale, affiancato da due figure femminili, Rachele e Lia, la vita contemplativa e la vita attiva, opera di Raffaello da Montelupo.
Nell’ordine superiore vi è la figura recumbente di Giulio II sul sarcofago, riconosciuta come opera di Michelangelo, affiancato dalla Sibilla e dal Profeta, opere invece di Raffaello.
La cima del mausoleo è coronata dalla figura della Vergine Maria con il Bambino, su disegno di Michelangelo, scolpita da Scherano da Settignano e completata nel 1545 da Raffaello da Montelupo, anno in cui anche il monumento funebre fu finalmente ultimato.
A catalizzare ogni attenzione è la statua di Mosè, alta 232 m, datata tra il 1513 e il 1515. Lo stesso Michelangelo si stupì del risultato tanto da percuotere il ginocchio della scultura con un martello, si dice, chiedendole, Perché non parli?
Pare che per la sua realizzazione, Michelangelo abbia guardato con estremo interesse l’affresco con il profeta Isaia, opera di Raffaello, che abbiamo già incontrato nella basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio.
L’aspetto della statua di Mosè, come la possiamo ammirare oggi, è frutto di una rilavorazione del marmo, in un momento successivo e operata dallo stesso artista, rintracciata, sia sotto il profilo documentario sia attraverso le indagini utili al restauro del 2003, da Antonio Forcellino. In origine la statua era in posizione pienamente frontale, ma in seguito l’artista gli girò la testa a guardare verso sinistra. Secondo le fonti questo cambiamento sarebbe stata la risposta a chi gli aveva fatto l’osservazione che una diversa posizione della figura avrebbe sortito un effetto migliore, secondo altri avrebbe una ragione religiosa, per non guardare il ricco altare dove si avvicendavano fedeli in cerca delle sole indulgenze, quasi che le catene di san Pietro rappresentassero un nuovo vitello d’oro. La barba è tirata verso destra perché nel girare la testa l’artista non disponeva di abbastanza marmo per farla cadere diritta. Una barba che sembra più “eseguita in punta di pennello che scolpita”, scrisse il Vasari nelle Vite. Per poter rendere possibile la totale rilavorazione, lo scranno fu abbassato di circa sette centimetri e il ginocchio sinistro ristretto di cinque.
Per la sua realizzazione sono noti i modelli di sculture antiche, come il celebre torso del Belvedere e il San Giovanni Evangelista di Donatello. Mosè non siede in posizione di riposo, anzi ogni muscolo è teso come se fosse in procinto di alzarsi con impeto, e il piede sinistro arretrato e di punta come se stesse per fare forza su di esso per sollevarsi. A questo si legano le Tavole della Legge stranamente rovesciate come se gli stessero sfuggendo via dal braccio e lo sguardo intenso e terribile, concentrato. È il momento in cui Mosè, sceso dalla montagna, spezza le Tavole della Legge e brucia il vitello d’oro (Es 19-20). Anche Siegmund Freud ha tentato una lettura psicologica della scultura vedendo in lui il tentativo di dominare l’ira che lo stava invadendo.
Infine le corna sulla fronte, riprese anche da alcuni altri artisti successivi, sembrano risalire alla trascrizione errata dall’Esodo non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante (34,29) dalla corruzione dell’ebraico luce – karan o karnaim – in keren, corna.