Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Accompagnare, servire, difendere: sono questi i tre verbi che padre Pedro Arrupe, fondatore del Sevizio dei Gesuiti per i rifugiati, quaranta anni fa, consegnò al Centro Astalli. Oggi, sono ancora questi tre verbi a riassumere il percorso assegnato all’organizzazione: essere al servizio di chi lascia il proprio Paese per fuggire da guerre e persecuzioni, e impegnarsi a garantirne una dignità e la possibilità di vivere da individui liberi.
Mettersi dalla parte dei rifugiati
La data del 14 novembre – che domani vede una messa celebrata a Roma dal preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa – segna la nascita del Centro Astalli, e quella della nascita di padre Arrupe, nel 1907 a Bilbao, in Spagna. Una data simbolica, indica lo stesso Centro, che rappresenta un riferimento ideale e al contempo concreto, come era tangibile l’amore di Arrupe per i rifugiati. “Siete un dono”, disse nel 2016 l’allora Generale della Compagnia di Gesù, padre Adolfo Nicolàs, ad un gruppo di rifugiati incontrati al Centro Astalli che, in questi decenni, si è fatto compagno di strada, di cammino, ha accompagnato, seguendo i verbi di padre Arrupe, queste persone. I rifugiati negli anni sono cambiati perché sono cambiate le crisi umanitarie che attraversano il mondo, spiega padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, però “la figura del rifugiato ha sempre quelle necessità di fondo che sono quelle di base: il cibo, la salute e l’integrazione”. Servire i rifugiati, continua Ripamonti, non significa farne “uno strumento per i nostri interessi, ma piuttosto essere al loro servizio e servire alla loro dignità, perché la riacquistino”. Si arriva poi al terzo verbo: difendere, “perché abbiamo visto che in questi 40 anni è venuta un po’ meno la difesa dei diritti e della dignità di queste persone. È, quindi, sempre più necessario mettersi dalla parte di chi non ha voce, essere dalla loro parte per difendere i loro diritti”.
Si è tutti parte di un’unica casa comune
Oggi c’è una parte di società civile, così come delle comunità cristiane, che accoglie e riconosce la ricchezza della differenza e della diversità culturale, e che le accoglie come un dono per tutti. Purtroppo però, spiega il gesuita, “nelle nostre società, e anche nelle parrocchie, nelle comunità cristiane, molto spesso lo straniero, il migrante, viene visto come un peso, un problema, come una persona da cui difendersi, perché si ha paura che queste persone possano venire alle nostre latitudini per rubarci quello che riteniamo solo nostro”. È fondamentale invece acquisire sempre più la consapevolezza che “siamo tutti parte di un’unica casa comune e che, come dice sempre Papa Francesco, occorre andare verso un noi sempre più grande. Non c’è chi bisogna escludere, ma c’è chi bisogna sempre di più includere all’interno dei nostri contesti, delle nostre comunità”.
Preoccupazione per la situazione in Belarus
Il Centro Astalli, negli ultimi giorni, ha espresso la forte preoccupazione per ciò che sta accadendo al confine tra la Polonia e Belarus, dove migliaia di migranti sono accampati – tra loro donne e bambini – in una situazione di grande pericolo, vittime del freddo, e sempre nella speranza di poter entrare in Unione Europea. Persone che invece vengono usate come strumento politico e che vengono respinte. Ripamonti chiede un cambio di prospettiva, perché bisogna “mettersi nei panni delle altre persone, dei malcapitati della storia, questo è il cambiamento sostanziale che l’Europa deve fare, altrimenti continueremo a difenderci da queste persone, a ritenere queste persone come dei nemici e ci chiuderemo nella fortezza Europa che tenderà sempre di più a escludere le persone”. Ciò che sta avvenendo è soltanto l’ennesima manifestazione della esternalizzazione dei confini da parte dell’Europa, aggiunge, ossia “si sta facendo in modo di non fare arrivare le persone, di fare in modo che altri le trattengano nei loro territori, oppure che queste persone diventino degli strumenti politici per gli interessi degli altri. Dobbiamo uscire da questa dinamica perché le persone non sono sacrificabili, non sono codificabili, ma sono degli esseri umani con la loro dignità, esattamente come ciascuno di noi”.
Il Papa a Lesbo
La situazione nei centri di detenzione in Libia, ciò che avviene in Afghanistan e in Siria, sono le altre drammatiche crisi che preoccupano il Centro Astalli, che si sono ormai “come sclerotizzate”, tragiche situazioni umanitarie che si sommano ad altre, che però avvengono fuori dai confini europei, mentre la vera “ferita nel cuore dell’Europa” oggi è rappresentata da Lesbo, dall’isola greca dove vengono concentrati migliaia di profughi, che lì vedono infanti i loro sogni, dimenticati dall’Unione Europea che non li vuole “nei territori dell’Unione”. Ed è lì che il 5 dicembre prossimo andrà Francesco, per la seconda volta, dopo la visita del 2016. “Il fatto che il Papa – conclude Ripamonti – ci sia andato una volta per chinarsi su queste persone e che ora ci ritorni per non farle dimenticare è un elemento importante che deve farci non solo riflettere, ma deve muovere le nostre mani e i nostri passi verso di loro”.