Chiesa Cattolica – Italiana

Repole su Ecclesiam suam: riscoprire il valore del dialogo in un tempo di contrasti

A sessant’anni dall’enciclica di Paolo VI, l’arcivescovo di Torino commenta l’attualità di un testo “pionieristico” che “ha rimesso la Chiesa nella carreggiata del dialogo con la modernità”. Un dialogo necessario purché non sia acritico

Antonella Palermo – Città del Vaticano

La lezione di Paolo VI «può essere da riattualizzare nell’oggi». Lo afferma in questa intervista con i media vaticani l’arcivescovo di Torino Roberto Repole in occasione del sessantesimo anniversario di Ecclesiam suam, la prima enciclica del pontificato montiniano.

Ascolta l’intervista a monsignor Roberto Repole

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2024/07/30/13/138145562_F138145562.mp3

Qual è stato il più grande merito dell’enciclica di Paolo VI nell’epoca in cui fu scritta?

L’enciclica fu scritta mentre a Roma si svolgeva il Concilio Vaticano II che, a detta del grande teologo Karl Rahner, è stato il primo Concilio della Chiesa “sulla Chiesa”. Mi pare che il principale merito del documento di Paolo VI fu quello di mettere al centro l’autocoscienza che la Chiesa ha di sé stessa, cioè il fatto di essere innanzitutto mistero, di appartenere al disegno salvifico di Dio per l’umanità. Nello stesso tempo il documento ebbe il merito di evidenziare la strutturale missione della Chiesa nel mondo e il desiderio di dialogare con il mondo contemporaneo, segnato da una modernità rispetto alla quale nel passato la Chiesa aveva fatto una certa fatica a dialogare. Questi due aspetti anticipano già alcuni grandi temi di due grandi Costituzioni del Vaticano II come la Lumen gentium e la Gaudium et spes.

Come fu recepita l’enciclica?

Direi che fu recepita nella più ampia cornice della recezione dei temi del Concilio Vaticano II. Certamente nell’enciclica si intravvedevano elementi di grande novità, per esempio il fatto che la missione della Chiesa debba essere svolta secondo il canone del dialogo, perché il modo in cui Dio si rivela all’uomo è proprio quello dialogico. Fu una novità rispetto a certi modi del recente passato, che potevano non essere sempre contrassegnati da questa simpatia, potremmo dire, della Chiesa con il mondo.

Alla luce di quel testo, l’esperienza del Sinodo oggi sta cambiando la Chiesa e in che modo?

A me pare che l‘esperienza dell’attuale Sinodo possa dare maggiore consapevolezza di ciò che la Chiesa è, quando non si va dietro alle facili retoriche del momento. Come ho detto, Paolo VI nella Ecclesiam suam metteva in evidenza che la coscienza che la Chiesa ha di sé stessa è di essere mistero, di avere a che fare con Cristo che invia il suo Spirito. In alcuni passaggi il documento sottolinea come ci sia un intimo legame tra Cristo e la sua Chiesa senza il quale non si comprende cosa la Chiesa è. Mi sembra che oggi si tratti di riscoprire tutto questo e che questo legame fondi anche i legami tra i diversi soggetti ecclesiali, legami non tanto di simpatia, di forze l’una opposta all’altra, di visioni delle cose differenti, quanto legami di fraternità in Cristo, a tutti i livelli. Se non fosse così, penso che sotto il cappello di “sinodalità” si potrebbero mettere tante cose che non hanno a che fare con la natura della Chiesa.

Quando parla di “facili retoriche del momento” a cosa si riferisce?

Penso appunto al fatto che oggi tutti parlano di “sinodalità”, però a volte, dietro alla sinodalità, si proiettano realtà che non hanno davvero a che fare con la sinodalità della Chiesa. In un contesto come quello attuale della civiltà occidentale, in cui siamo tutti suggestionati dai diritti individuali, molto meno da quelli sociali, ci può essere il pericolo, ad esempio, che si faccia passare per “sinodalità” una mentalità che non ha che vedere con la sinodalità della Chiesa.

“Correggere i difetti dei membri della Chiesa” era una delle maggiori preoccupazioni espresse nella lettera. Quali sono oggi, secondo lei, i più diffusi e resistenti difetti?

Mi verrebbe da dire che i difetti sono quelli di sempre ma, nello stesso tempo, essi assumono caratteristiche legate al tempo che viviamo oggi. In un commento a un testo del Vaticano II sulla missione, il teologo Yves Marie-Joseph Congar disse che c’è sempre qualcosa di non evangelico da convertire in noi. Mi sembra utile richiamare qui questa considerazione. Forse, alla radice dei difetti dei membri della Chiesa c’è un processo di conversione che non viene portato a compimento. Se dovessi dire come questo si manifesti oggi, mi verrebbe da dire, guardando in particolare all’Occidente, che la mancata conversione si esprime nel dare per scontata la fede in un tempo in cui la fede non è più scontata, nel non prendere sufficientemente sul serio la necessità di un approfondimento e di una elaborazione spirituale da parte dei credenti. Essa si manifesta nella poca fiducia, a volte, sul fatto che lo Spirito di Cristo continua ad abitare la Chiesa di oggi: il tempo attuale non è necessariamente un tempo di decadenza. Ancora: essa si manifesta nell’assumere la mentalità del mondo comunicativo di oggi anche dentro la Chiesa, un mondo comunicativo che non è tanto dialogico, non è tanto dialettico, ma basato spesso sulla denigrazione gli uni degli altri. A questo proposito, la lezione di Paolo VI può essere da riattualizzare nell’oggi.

Ciò che Paolo VI sottolinea a più riprese nell’enciclica, circa il rapporto della Chiesa con il mondo, è il “laboriosissimo impegno” cui è chiamata la Chiesa stessa a trovare un equilibrio tra il pericolo di smarrimento nell’adattamento al costume e al pensiero dell’ambiente temporale e il rischio di chiudersi in una sorta di confino non dialogante per timore di confondersi in un inutile mimetismo. Insomma, distinzione ma non separazione: cosa significa questo oggi?

Mi sembra che significhi non adattarsi a una certa mentalità contemporanea, secondo cui le identità sono necessariamente opposte l’una all’altra. È certamente vero che la sottolineatura delle identità può portare a situazioni di conflitto e all’estraniamento degli uni verso gli altri, però, quando questo accade, dobbiamo chiederci se il tema delle identità sia stato bene impostato e non ci si trovi piuttosto di fronte alla parodia delle identità vere. La vera identità è dialogica, per natura sua. Nello stesso tempo, perché ci sia un dialogo, è necessario che ci sia una identità. Mi sembra che nella Chiesa dobbiamo recuperare questa consapevolezza: abbiamo una identità che non ci deriva da noi stessi, ma dal Vangelo di Cristo che siamo chiamati a testimoniare nel mondo. Questo non ci oppone al mondo, anzi, ci fa sentire a servizio dell’umanità e strutturalmente in relazione con tutte le donne e gli uomini con cui viviamo.

L’apostolato, scriveva Paolo VI in Ecclesiam suam, non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai principi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana. Dove riscontra lei oggi queste ambiguità nella Chiesa?

Siamo arrivati con un certo ritardo a dialogare con il tempo moderno, come dicevo. In questo senso l’enciclica di Paolo VI fu davvero pioneristica, fece un gran bene alla Chiesa del suo tempo perché la rimise nella carreggiata del dialogo con la modernità dentro cui annunciare il Vangelo. Ora, mi sembra che questo ritardo possa risolversi oggi in un sottile, inconsapevole senso di colpa che ci lascia acritici rispetto ad alcune dimensioni della modernità, che possono restare antievangeliche. Ci sono tanti aspetti molto belli della modernità, che hanno il sapore e il gusto del Vangelo. Per esempio, la cultura dei diritti, il rispetto delle persone, un senso della giustizia più alto, la pari dignità di tutte le persone, il senso del soggetto, della libertà… Credo che questi siano valori che la modernità ci ha riconsegnato, ma non sono così estranei alla bellezza del Vangelo. Però ci possono essere anche distorsioni della modernità che la Chiesa deve guardare sempre con discernimento evangelico. Penso, ad esempio, che oggi si dà per scontato che la razionalità sia solo quella tecnoscientifica, la quale riduce il mondo a un funzionalismo soffocante.

Si stanno diffondendo tendenze molto in voga che portano, spesso anche i cristiani, a ricercare sempre più forme di spiritualità sganciate dalla frequentazione della Chiesa, di contatto con il trascendente facendo a meno delle strutture ecclesiali. Come spiegare questi fenomeni?

Da un lato bisogna interrogarsi sempre sul contenuto che si dà alla ricerca di trascendenza e di spiritualità. Nel Cristianesimo la trascendenza è essere aperti a Cristo, che è Figlio di Dio ma insieme nostro fratello; quindi l’incontro con Dio passa necessariamente attraverso l’incontro con il fratello. L’incontro con Dio, dunque, e l’esperienza di Chiesa non possono essere due cose antitetiche. Quando pensiamo di poter bypassare la Chiesa per un incontro più immediato con Dio, la grande domanda che ci si dovrebbe fare è: quale è il volto di Dio che ci sembra di dover incontrare? Dall’altra parte, e qui sta tutta l’attualità del Vaticano II, è vero che la Chiesa deve percepirsi come mistero, che è il luogo della presenza di Dio, strumento dell’incontro di Cristo con le donne e con gli uomini. Qui c’è davvero da fare un esame di coscienza continuo: quanto le nostre strutture e i nostri modi di realizzare la comunità cristiana, le diocesi, le parrocchie portano a sperimentare l’incontro con Cristo come centro di tutto? Quanto sono invece luoghi in cui si fanno cose, ci si aggrega per un bisogno, ma non attorno a quel fulcro che è Cristo? Deve far riflettere che tante persone oggi cerchino risposta al proprio desiderio di spiritualità fuori dalla Chiesa: non sono spesso messi in condizione di percepire che la Chiesa possiede una immensa ricchezza spirituale.

Parla della pace, Montini, in Ecclesiam suam. Dice deve essere “libera e onesta”: non può non denunciare, come delitto e come rovina, la guerra di aggressione, di conquista o di predominio. Una precisazione quanto mai attuale…

Direi di sì. Ci dice che con le aggressioni e con la violenza non abbiamo mai finito di fare i conti. Ci dice che la ricerca della pace non può non essere anche la ricerca della giustizia. Così come ci dice che la ricerca della pace deve trovare anche dei sentieri di riconciliazione e di misericordia, visto che le guerre lasciano l’eredità di ferite atroci. Mi pare che questo messaggio non investa solo il macro-mondo, ma anche i nostri piccoli mondi. Alla fine è un invito: la guerra parte sempre dal cuore degli uomini, ci sono rabbie, ostilità, odii che si possono coltivare anche non appartenendo a paesi di guerra. Sono colpito da come le nostre società, pur formalmente in pace, siano albergate da tante forme di sottile o non sottile violenza. La ricerca della pace non può essere uno slogan ma un impegno di tutti coloro che la desiderano davvero.

Il primato di Pietro non vuole costituire supremazia di spirituale orgoglio e di umano dominio, si legge ancora nell’enciclica, ma primato di servizio. Papa Francesco ce lo dimostra nel suo pontificato… Come guarda alle sfide ecumeniche legate anche al tema urgente della pace?

È un nodo particolarmente attuale, perché la divisione delle Chiese non aiuta a cogliere che l’umanità è chiamata a camminare nel segno dell’unità e della fraternità. Se le Chiese sono divise già tra di loro, sbadiscono il segno di comunione che sono chiamate ad essere. Il cammino ecumenico è oggi più che mai da sentire come vitale e impellente, se vogliamo che la Chiesa porti il suo contributo evangelico necessario all’unità dell’umanità e alla pace.

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