Chiesa Cattolica – Italiana

RD del Congo: il valore dell’uomo nella gioia di un incontro

Il Papa oggi lascia la Repubblica Democratica del Congo per andare in Sud Sudan. Indescrivibile la gratitudine e la gioia di Kinshasa per questo incontro che ha squarciato logiche predatorie e di possesso

MASSIMILIANO MENICHETTI

L’Africa vista dalla Repubblica Democratica del Congo è molto diversa rispetto a quando si è fuori da questo continente. Basta un solo giorno e l’angolo della prospettiva si alza incredibilmente, diventa possibile riconoscere ciò che da molte altre latitudini, paradossalmente, sfugge e si dimentica: qui il cuore dell’uomo è capace di gioire per un incontro. La pace, la concordia, la fratellanza in effetti nascono dalla relazione, che in questo luogo si tocca e si vede.

Nella terra dei diamanti si festeggia se un amico viene a trovarti, si è onorati della visita di un parente, di un nonno, che condivide la sua storia, la saggezza di una vita intera. La parola gioia non è stata svuotata di significato, non è superficiale, ma appare piena, perché non si aggancia ad un momento effimero, ma all’uomo. E’ la gioia dell’incontro che ha riempito di gente, accalcata su più strati: le strade, i cavalcavia, l’aeroporto di Ndololo, lo stadio dei Martiri, durante la visita di Papa Francesco. Il desiderio era quello di vedere, ascoltare, ma anche salutare, omaggiare, festeggiare, condividere. E questa gioia, in Africa, si canta, si suona, si balla. Emozioni riflesse negli occhi spesso inumiditi dalle lacrime, nei sorrisi spalancati di bambini, adulti ed anziani, che si sono ritrovati a camminare insieme al Successore di Pietro, a seguire la consapevolezza della speranza che si fonda in Cristo.

In questo Paese, dove un europeo probabilmente non troverebbe le “comodità irrinunciabili” a cui è abituato, è possibile rintracciare la radice vivida di ogni cosa, sia nel bene, sia nel male. Forse accade perché l’uomo non è stato anestetizzato dall’opulenza del benessere, o perché qui il tempo non è ancora del tutto scandito dalla frenesia del fare, ma dal respiro del sole, della natura. Kinshasa è una città caotica e disordinata, in cui le baracche, su strade sterrate ed asfaltate, si alternano a cumuli di rifiuti, palazzi in costruzione, abitazioni curate e scheletri in cemento armato.

Il traffico sembra non avere regole, i veicoli se non sono imbottigliati, si spostano, sfrecciando velocemente, continuamente a destra e sinistra. La maggior parte delle auto sono ammaccate, con gli specchietti retrovisori legati con fili e nastro adesivo per non cadere, le portiere dei pulmini per il trasposto pubblico sono spesso aperte per consentire di stipare più gente possibile, alcuni viaggiano in piedi sporgendo di fuori. La polizia e i militari presidiano le strade, hanno lunghi sfollagente che agitano contro chi viola le direttive. Sulle motorette si sale anche in quattro. Tantissimi i bambini che giocano dietro lamiere colorate che delimitano spazi vuoti, le donne trasportano sulla testa sacchi di ogni dimensione.

Lo sguardo degli abitanti è sempre lo stesso: ti attraversa. In questa terra in cui vivono e si scontrano le contraddizioni della ricchezza del sottosuolo e della povertà, della bellezza della natura e della guerra, ciò che prevale è la spinta inarrestabile del popolo, tutta proiettata in avanti. “La Repubblica Democratica del Congo sarà un paradiso”. Questa speranza non è un’attesa, una chimera, ma ciò che si ascolta da una generazione intera, da chi, portando Cristo, costruisce giorno dopo giorno tra le macerie, la corruzione, gli scartati, le violenze, i soprusi, lo sfruttamento e la divisione tribale.

Forse però è proprio questo che spaventa chi depreda, schiaccia e silenzia l’Africa, chi cerca di relegarla ad un problema da risolvere o Stati da aiutare. Tutti qui ricordano le due visite di San Giovanni Paolo II, ma anche quella recentissima del cardinale Parolin, venuto a luglio in rappresentanza di Francesco, che ha rimandato il viaggio a causa del dolore al ginocchio. Il segretario di Stato vaticano ha portato la promessa che il Santo Padre sarebbe venuto. “E’ passato un anno” ha sospirato il Pontefice sull’aereo in direzione Kinshasa. Il Papa è stato di parola e questo popolo non lo dimentica, si sente onorato, rispettato, amato. Francesco ha alimentato nel Paese, in cui la Chiesa è rigogliosa, la certezza dell’orizzonte, la consapevolezza del legame in Cristo.

Questo continente sta crescendo enormemente, non solo in termini di prodotto interno lordo, ma le opportunità non verranno dal coltan, dal petrolio, dalle pietre preziose – certamente saranno strumenti – ma dalla memoria dell’uomo, dalla voglia d’incontro, dalla vitalità, dalla giovinezza, dal desiderio di questi popoli, i quali consentiranno a tutta l’umanità di vivere nuove sfide, di cambiare, crescere, svilupparsi. E’ questo il ribaltamento di prospettiva portato dal Papa che ha indicato la luce di Cristo quale faro da seguire, perché in Lui le logiche coloniali o predatorie si dissolvono consentendo all’uomo di diventare se stesso in relazione agli altri.

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