Chiesa Cattolica – Italiana

RD Congo, sono beati i saveriani Faccin, Carrara e Didoné, e padre Joubert

Il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, in rappresentanza del Papa, ha presieduto oggi, 18 agosto a Uvira, davanti alla cattedrale di San Paolo, la Messa con il rito di beatificazione dei tre religiosi della Pia Società di San Francesco Saverio per le Missioni Estere e del sacerdote diocesano assassinati durante la ribellione mulelista contro il governo congolese, in un contesto ateo e antireligioso

Tiziana Campisi e Stefano Leszczynski – Città del Vaticano

Alla gente hanno lasciato amore e spirito di fraternità, sono stati uccisi il 28 novembre 1964 per avere scelto di condividere la loro fede, desiderosi di fare del bene nelle missioni del Sud Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, durante la ribellione mulelista contro il governo congolese, in un contesto ateo e antireligioso. Oggi, 18, agosto, fratel Vittorio Faccin, padre Luigi Carrara e padre Giovanni Didoné, missionari saveriani, padre Albert Joubert, sacerdote diocesano, sono stati beatificati a Uvira dal cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, in rappresentanza del Papa, nell’area antistante la cattedrale di San Paolo.

“Basta con le violenze, le uccisioni e le morti sul suolo congolese”

“Sono convinto che il sangue dei nostri beati martiri ci otterrà il dono della pace” ha detto nella sua omelia il porporato aggiungendo che “la loro vita ci interpella oggi” e lanciando un forte appello: “Basta con le violenze! Basta con le barbarie! Basta con le uccisioni e le morti” sul suolo congolese, “le violenze e le guerre sono frutto della stoltezza”. Per l’arcivescovo di Kinshasa “sono condotte da persone che si allontanano dal cammino dell’intelligenza, da gente insensata, che non ha né timore di Dio né rispetto per l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio”. “Dio non ama le guerre – ha proseguito -. Dio non ama le violenze. Dio non ama i conflitti. Poiché i conflitti armati avviliscono l’uomo e lo privano della dignità di figlio di Dio. Le violenze, i conflitti e le guerre sono opera del diavolo e dei suoi accoliti che seminano desolazione e morte”. Il cardinale Ambongo Besungu ha esortato ad abbandonare “la stoltezza della volontà di potere”, e a “privilegiare la via del dialogo e della risoluzione pacifica dei conflitti”. “Cessiamo con le nostre rivalità e violenze. Raduniamoci tutti attorno ai progetti che assicurano lo sviluppo delle nostre popolazioni” ha sottolineato, perchè così sarà onorata la memoria dei beati martiri della Repubblica Democratica del Congo “che hanno versato il loro sangue in nome della fede in Cristo”.

L’esempio dei martiri saveriani e di padre Joubert

Il porporato ha anche spiegato che la Chiesa “dichiarando ufficialmente una persona beata”, in pratica “riconosce e confessa che la morte fisica non ha vinto e che Dio non ha abbandonato i suoi servitori. Al contrario, ha premiato la loro fedeltà facendoli entrare in cielo, accanto a Lui”. È così per i martiri Faccin, Carrara, Didoné e Joubert che hanno reso testimonianza a Cristo e hanno dimostrato “fedeltà a Dio e alla sua parola, in un ambiente talvolta ostile” e che dunque sono “modelli di vita cristiana”. “Al culmine della ribellione degli anni ’60” nella Repubblica Democratica del Congo, infatti, ha aggiunto il cardinale Ambongo Besungu, “avrebbero potuto fuggire” ma hanno scelto “di testimoniare la loro fraternità evangelica rimanendo accanto ai loro fedeli di Fizi e Baraka fino all’effusione del sangue”. “Il loro sangue è diventato da allora ‘una semenza’ per l’evangelizzazione” del Paese e di tutta la Chiesa. 

Una fraternità vissuta fino in fondo

Migliaia di persone hanno preso parte alla Messa, concelebrata dal nunzio apostolico nella Repubblica Democratica del Congo monsignor Mitja Lescovar e da diversi vescovi, alcuni dei quali giunti  dalla Provincia ecclesiastica di Bukavu. A Uvira i cattolici non sono la maggioranza, spiega ai media vaticani il postulatore della causa di beatificazione, il missionario saveriano padre Faustino Turco, quindi la liturgia è stata “l’occasione di una preghiera ecumenica”, potendo condividerla “con cristiani di altre chiese e anche persone di diverse religioni”. Al termine del rito il cardinale Ambongo Besungu si è recato a Kavinvira per collocare le reliquie dei beati – le cui tombe si trovano a Baraka e a Fizi, le città in cui sono stati uccisi – nel Santuario di Kavinvira, in quello che sarà chiamato Oratoire de la fraternité. È seguita, poi, un’agape fraterna e l’accoglienza in varie parrocchie dei fedeli che hanno partecipato alla celebrazione. Tra loro anche una trentina di persone dall’Italia, familiari dei martiri.

Ascolta l’intervista a Faustino Turco

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2024/08/14/11/138210570_F138210570.mp3

Cosa significano questi nuovi beati per la Repubblica Democratica del Congo?

Voglio innanzitutto ringraziare Papa Francesco per questo riconoscimento del martirio, perché significa molto per il Congo. Quello che constatiamo attualmente è che riconoscere il martirio di queste quattro persone significa anzitutto che la loro non è stata una morte qualunque e che la morte per la causa del Vangelo è una morte da non dimenticare, perché è esempio di dono totale di sé. È una morte anche rappresentativa, perché dietro a loro quattro la gente ricorda tanti altri buoni esempi di vita vissuta, di Vangelo vissuto, testimoniato, anche, fino al dono del sangue per la causa del Vangelo. Questi martiri parlano anche di fraternità, perché sono due diverse comunità missionarie quelle nelle quali hanno reso il loro servizio, comunità nelle quali si cercava di vivere la fraternità, con tutti i limiti  e con tutte le sfide. Questi quattro martiri fra di loro erano fratelli, pur essendo di culture diverse, ed erano fratelli anche con la gente, perché, soprattutto gli ultimi due mesi, sono stati protetti dai cristiani del posto. Due di loro, Luigi e Vittorio, passavano le notti in una famiglia che li proteggeva. La loro fraternità ha origini in Gesù Cristo, perché è nel nome di Cristo che hanno dato la vita.

Lo spirito della missione è strettamente legato alla realtà sociale del luogo. Era così anche allora?

Un’evangelizzazione è sempre legata a un contesto ed è bene tenerlo presente, perché altrimenti si rischia di falsarne anche l’interpretazione e la lettura. Quello dei quattro martiri era il contesto degli anni 60 del post-indipendenza. I saveriani sono arrivati nell’attuale diocesi di Uvira nel ‘58, quindi due anni prima della dell’indipendenza del Congo. Sono stati introdotti molto bene dai Padri Bianchi e allora avvertivano un po’ questi movimenti di indipendenza e anche questi atteggiamenti che erano il riflesso di anni e anni di mancato rispetto della dignità della persona, in quanto persona figlio di Dio. Negli anni sessanta i nostri confratelli si sono inseriti in tale contesto con una chiave, a mio modo di vedere, molto speciale. Ne avevano coscienza, perché sono stati formati nell’ambiente saveriano, e il nostro fondatore, San Guido Maria Conforti, in un discorso a coloro che dovevano partire per la Cina, diceva che il missionario è la personificazione ideale della vita di Cristo e come tale deve essere pronto a tutto, ma lo deve fare con amore. Quindi, il missionario, già prima di partire dalla sua patria per andare dove sarà inviato, è chiamato ad amare la gente che incontrerà. Quindi è la scientia amoris che accompagna il missionario e gli da la chiave di lettura di ciò che capita. Padre Luigi Carrara, quando ha saputo che era destinato in Congo, nel ’62, – c’era stata l’indipendenza nel ‘60, nel ’61 era stato ucciso il primo ministro, alcuni confratelli erano stati imprigionati, poi c’è stato l’eccidio di Congolo con 22 missionari trucidati – sapeva bene a cosa andava incontro e dice ai suoi genitori: “Rallegratevi con me perché ho ricevuto la destinazione in Congo”. “È un momento storico – scrive padre Luigi – ed è un momento in cui l’Africa va amata”. Credo sia qualcosa di molto attuale per noi che non siamo congolesi e che lavoriamo in Congo vivere la missione anzitutto come un’avventura, una storia di amore, perché tale è. È un’alleanza che si riceve dal Signore e si manifesta nelle varie comunità. Albert Joubert era molto coinvolto nell’educazione dei giovani e fratel Vittorio, con il lavoro nell’ambito delle costruzioni, voleva manifestare anche una presenza da laico – perché era fratello, un semplice consacrato – nella liturgia. Quindi Vittorio è un po’ il pane che viene offerto, un pezzo di pane spezzato per tutti. Una presenza molto bella.

Quali frutti portano alla Chiesa congolese queste beatificazioni?

Anzitutto ricordiamo che Albert Joubert è il primo sacerdote diocesano del Congo che viene beatificato. E questo credo significhi molto: la santificazione dei sacerdoti e del sacerdozio presbiterale in generale. Vedere che in una Chiesa fiorente i sacerdoti, i laici, tutti quanti noi, tutti i battezzati, siamo chiamati alla santità e questo è possibile. Mi vien da pensare alle domande che a volte i bambini ci pongono: ma perché i santi che si ricordano nella Chiesa spesso sono degli altri continenti e ce ne sono così pochi qui in Congo? Sono domande molto semplici a proposito della santità canonizzata, eppure, riconoscere questi martiri come beati è aprire un cammino di speranza e dire che è vero che dopo la morte non finisce tutto. É interessante notare che è venuta proprio dai familiari di Albert Joubert, che parteciperanno con i loro bambini, la richiesta, all’indomani della beatificazione, di battezzare tre bambini della loro famiglia. È un piccolo esempio per dire che l’attualità del Congo, oggi spesso segnata da violenze, da soprusi, da ingiustizie – come vediamo in questi giorni – non toglie il desiderio di un popolo di poter respirare a pieni polmoni una parola di speranza, un cammino che si apre a un futuro che sia solo di rassegnazione e di ingiustizia.

Cosa ha significato per lei assumere il ruolo di postulatore?

Per me ha significato scoprire un contesto nuovo, potermi affiancare a questi testimoni con la guida di un sacerdote diocesano che conosceva bene il contesto. Imparare a pensare in positivo: non si parlava più di Baraka e Fizi, i due luoghi dell’eccidio, come luoghi di violenza, ma man mano che la causa evolveva se ne parlava come luoghi di grazia. Un sacrificio fatto da giovani vite può essere occasione di fecondità evangelica. Sono cose che restano anche per noi, che abbiamo la fortuna di portare avanti questa missione e di poter animare e credere che tutti quelli che soffrono, che magari ci ascoltano, possono scoprire nella loro vita, nella loro storia, come la grazia di Dio sia già all’opera e stia già facendo fiorire nelle loro vite qualcosa di bello. E quando siamo partecipi di queste grazie viene da pensare che – come diceva padre Giovanni – la vita missionaria è la più bella che ci sia.

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