Ratzinger, oltre a Monaco c’è una pagina nera nel suo pontificato

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Meraviglia il coro di meravigliate esclamazioni. Soltanto perché spunta un nome eccellente: Joseph Ratzinger. Come se l’elenco orrendo dei 497 abusi nella diocesi di Monaco di Baviera non confermasse ciò che ormai è acclarato da tempo dalle inchieste svoltesi nella Germania stessa, in Irlanda, Australia e Stati Uniti.

Disattenzione, sciatteria, copertura cosiddetta a fin di bene per “non turbare” i fedeli sono state per decenni e secoli una prassi costante, nella Chiesa cattolica come in altre comunità religiose. L’inchiesta di Monaco mette in luce le responsabilità di tutti gli arcivescovi dal dopoguerra ad oggi. Che siano brillanti o meno, riformatori o moderati, protagonisti delle riforme conciliari come il cardinale Faulhaber, destinati a diventare addirittura custodi della fede al Sant’Uffizio come Ratzinger e poi ascendere al trono papale – tutti non sono stati all’altezza della situazione, tutti hanno commesso “errori di comportamento” (per usare un termine neutro).

Per restare ai fatti: a Ratzinger, arcivescovo di Monaco dal 1977 al 1982, viene addebitato di non avere preso nessuna misura contro quattro preti pedofili. Uno, Peter Hullermann, già responsabile di abusi, venne trasferito in Baviera dalla diocesi di Essen con l’obbligo di sottoporsi ad una terapia. Poche settimane dopo gli era già stato affidato un incarico pastorale (e poi ha continuato ad abusare).

Sostiene l’ex pontefice Ratzinger di non averne saputo nulla e di non essere stato presente alla riunione in cui il vicario generale della diocesi Gerhard Gruber annunciò la decisione. Il reverendo Gruber afferma però oggi di avere ricevuto pressioni – quando esplose il caso durante il pontificato di Benedetto XVI – perché dichiarasse di assumersi tutta la responsabilità da solo.

Altri due casi sono persino più gravi: per altri due preti pedofili le autorità statali avevano già certificato azioni criminose. Non successe nulla. Continuarono tranquillamente la “cura delle anime” in diocesi. Ratzinger ha scritto alla commissione d’inchiesta dello studio legale Westpfahl Spilker Wastl (WSW) di respingere “rigorosamente” gli addebiti.

Pensare che la storia finirà qui, pari e patta, tra un’accusa e una smentita, non ha senso. La procura bavarese ha già aperto fascicoli per 42 casi. Davvero nella diocesi di Monaco non c’era l’abitudine di chiedersi che fine avesse fatto la “cura” dell’abusatore Hulermann? E’ pensabile che in arcivescovado non interessasse a nessuno sapere dove operavano due preti pubblicamente sanzionati per reati? Sarà importante leggere integralmente il documento dello studio legale WSW e sarà ugualmente importante poter leggere le 82 pagine della memoria inviata dagli avvocati di Ratzinger ed eventualmente le sue ulteriori controdeduzioni.

Joseph Ratzinger-Benedetto XVI è di sicuro, per le sue qualità, una personalità di rilievo della Chiesa cattolica contemporanea. Un teologo di primo piano, un pensatore raffinato, una persona sensibile. E’ il pontefice che a un certo punto ha imboccato la strada di un rigoroso contrasto agli abusi nella Chiesa. Il Vaticano ha pubblicato nel decennio scorso un documento da cui risulta che Benedetto XVI in un biennio (2011-2012) aveva già allontanato 400 sacerdoti abusatori. “Un santo”, lo ha definito suor Jeannine Grammick, che pure è stata perseguitata dal Sant’Uffizio diretto da Ratzinger. Un santo ma non un santino.

La storia non ha bisogno di santini. La storia non tollera sbianchettamenti. C’è una pagina nera nel pontificato di Benedetto XVI, che riguarda una vicenda drammatica di abusi. La vicenda di Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo. Diventato pontefice, Joseph Ratzinger era perfettamente al corrente dei crimini di Maciel, abusatore seriale di seminaristi e persino di uno dei propri figli nati in clandestinità. Benedetto XVI ha allontanato Maciel dalla guida dei Legionari di Cristo, lo ha sospeso a divinis e gli ha imposto una vita in ritiro e penitenza. Ma non lo ha portato dinanzi ad un tribunale canonico come è richiesto dalle norme della Chiesa.

Allontanare Maciel dalla vita pubblica è stato riconoscergli un trattamento di favore – con il pretesto dell’età avanzata e del suo fragile stato di salute… e probabilmente con l’intento di non sconvolgere immediatamente l’organizzazione da lui creata.

Un processo non è un dettaglio. E’ il momento in cui i crimini di un colpevole diventano pubblici, il momento in cui il criminale deve risponderne all’opinione pubblica, il momento in cui emergono le complicità che gli hanno permesso di continuare impunemente i suoi crimini. Benedetto XVI, che tutto sapeva e poteva, ha deciso di non celebrare il processo e così le vittime non hanno mai ricevuto pubblica giustizia. Sono rimaste un numero, senza poter assurgere nemmeno alla dignità di vittime. Solo dopo la sua morte (nel 2008) è stato diffuso un documento con la chiara testimonianza dei crimini di Maciel. Ma un processo è un’altra cosa. Maciel non è mai stato condannato né cacciato dallo stato clericale.

E’ una pagina oscura che pesa sul governo ratzingeriano. E’ successo proprio quello che anni dopo nella Lettera ai cattolici irlandesi Benedetto XVI avrebbe denunciato come inammissibile: una “preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare scandali (ha) portato come risultato alla mancata applicazione delle pene ecclesiastiche … ”. Così la fiducia delle vittime è stata tradita fino alla fine.