Debora Donnini – Città del Vaticano
Normalità, coraggio, libertà e azioni cruente che vorrebbero soffocarla. Si dipana fra le pagine della storia italiana il libro “Eroi in toga, la lunga scia di sangue dei magistrati uccisi nella lotta alla criminalità” di Fabio Iadeluca, edito dall’Associazione 7 Colonne.
Tra i nomi più noti: Giovanni Falcone, Rosario Livatino, Paolo Borsellino che esattamente 29 anni veniva ucciso a Palermo, per mano della mafia. Il testo viene presentato oggi nell’ambito di un convegno presso il Museo delle Civiltà a Roma, organizzato dal Museo stesso, dalla Pontificia Accademia Mariana Internationalis, dalla Pontificia Università “Antonianum” e dall’Associazione culturale 7 Colonne. “I Magistrati uccisi nella lotta alle mafie” il titolo dell’incontro, realizzato in ricordo, appunto, della strage di via d’Amelio e frutto di una collaborazione tesa a sviluppare cultura, cittadinanza e legalità insieme alla conoscenza delle tradizioni umane e valoriali che affondano le loro radici nella storia d’Italia.
L’autore del libro, Fabio Iadeluca, è coordinatore del Dipartimento di analisi, studi e monitoraggio della criminalità e delle mafie presso la Pontificia Academia Mariana Internationalis. Nell’intervista spiega di aver voluto dividere in tre sezioni il testo per descrivere la storia dei quattordici magistrati uccisi per mano della criminalità organizzata, degli undici uccisi nel combattere l’eversione di sinistra e di destra, e dei tre nella lotta alla criminalità comune. Un bisogno, quello di scrivere questo testo, confida, nato perché in un momento in cui mancano punti di riferimento è importante ricordare le vicende di questi magistrati che si definivano persone normali, applicavano la legge e hanno dato la loro vita per la salvaguardia delle libere istituzioni.
Quindi, entrando nei particolari, ripercorre i legami fra questi omicidi e il contesto politico, economico e sociale di allora. Ricorda gli Anni della Prima e della Seconda Repubblica. In particolare quel 1992 con gli omicidi di Falcone e Borsellino. Si inizia dal 1971 con l’omicidio del magistrato Pietro Scaglione ucciso da Cosa nostra e si arriva fino al 2015 con Ferdinando Ciampi, che rientra nell’ambito di quanti hanno perso la vita per mano della criminalità comune.
Il rispetto di leggi e istituzioni il loro lascito
Ci si sofferma anche sulla figura del giudice Livatino, recentemente beatificato. Fu ucciso “in odio alla fede” dalla “stidda”, la mafia che opera in particolare nelle province di Agrigento, Caltanissetta, Catania e Ragusa. Era il 21 settembre 1990 e il magistrato aveva meno di 38 anni. “Un punto di riferimento” anche per quanto riguarda la magistratura, lo definisce Iadeluca, che ricorda il filo che unisce le diverse storie dei magistrati riportate nel testo: il loro grande rispetto per le leggi e le istituzioni. Questo rispetto è anche il loro “lascito” perché, afferma, “che si chiami terrorismo, mafia o criminalità comune”, tolgono la libertà e la dignità delle persone.
Le mafie si radicano nel disagio sociale
Per quanto riguarda la lotta alle mafie oggi, sottolinea che si è arrivati a punto forse “inaspettato” da quando ci furono le stragi di magistrati del ’92 e quelle del ’93 con la violenza stragista posta in essere dai corleonesi, con gli attentati di via Palestro a Milano, via dei Georgofili a Firenze, San Giovanni a Roma, un disegno eversivo stragista che voleva mettere in ginocchio lo Stato. “Lo Stato vince ogni giorno” e “si è arrivati a un punto altissimo”, afferma Iadeluca, facendo riferimento alle tante operazioni che sradicano all’interno del territorio intere organizzazioni mafiose, ai migliori magistrati e forze di polizia impegnati nella lotta alla mafia. Si tratta di un fenomeno che ha oltre duecento anni di storia e “la storia diventa la chiave di lettura dei fenomeni mafiosi”, perché, rimarca, “se oggi stiamo parlando della potenza criminale delle mafie che ancora sono forti, significa che non è solo una questione criminale o di lotta giudiziaria ma è perché queste mafie hanno ramificato all’interno del tessuto sociale”, specie dove c’è disagio sociale. Quel disagio sociale che ha combattuto anche don Pino Puglisi, che con il Vangelo e l’amore fraterno per gli altri, ha messo in difficoltà, al quartiere Brancaccio, la cosca dei Graviano. Che lui desse istruzione ai ragazzi, infatti, alla mafia dava fastidio.