Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Il Mercoledì delle Ceneri, primo giorno di Quaresima dei simbolici quaranta giorni che ci condurranno alla Pasqua, è l’attesa in cammino verso la certezza del trionfo della Risurrezione di Cristo. È necessario intraprendere queste giornate purificandoci attraverso uno stile di vita più sobrio e nella preghiera.
..quia pulvis es et in pulverem reverteris
“…perché polvere eri e polvere tornerai”
La frase, tratta dalla Genesi (3, 9), contraddistingue il rito del Mercoledì, quando l’officiante le pronuncia cospargendo il capo dei fedeli di cenere e rimandando così al significato di penitenza, di consapevolezza della finitezza umana. Proverbiale è infatti la frase “cospargersi il capo di cenere” per significare pentimento e che nella Bibbia ricorre varie volte.
Non è un caso, quindi, che Papa Francesco abbia scelto proprio oggi come giorno di preghiera e digiuno per la pace nel mondo, in questo nostro tempo della storia doloroso e oscuro.
L’ispirazione dell’arte
Il Mercoledì delle Ceneri ha ispirato artisti e letterati che hanno tentato di dare forma di parola o di immagine a un momento che sembra simile a un brusco risveglio dopo la sfrenatezza del carnevale, una presa di coscienza che attraverso la penitenza vuole intraprendere un cammino di nuova consapevolezza e rafforzare la fede.
Tra tutti, il poema in versi di Thomas Stearns Eliot, grande poeta statunitense, è il più celebre e di sicuro il più profondo ed emozionante. Ash Wednesday – appunto Mercoledì delle Ceneri – è stato composto tra il 1927 e il 1930. I versi sono stati ritenuti quelli che segnano la sua conversione all’anglicanesimo e dove il poeta si stacca da una visione materialistica per approdare a una tensione ascensionale spirituale.
Non sono versi facili e immediatamente comprensibili. Si tratta di poesia coltissima, ricca di citazioni, da Cavalcanti a Dante, da Pascal alla Bibbia e alle preghiere mariane. Sono, dicevamo, difficili da cogliere a pieno nel loro significato letterale, ma la loro suggestione lascia un segno profondo in chi li legge, un senso stupefatto di profonda bellezza. Piuttosto, si possono cogliere con l’intuito, secondo l’etimologia latina del “guardare profondamente dentro” che si rivela spesso una chiave di decifrazione fondamentale.
L’attacco è sconsolato e di rinuncia, come se si avessero ali che non servono a volare ma “soltanto piume che battono nell’aria”:
Perché io non spero di ritornare
Perché io non spero
Perch’i’ no spero di tornar giammai è l’incipit della Ballatetta di Guido Cavalcanti che in esilio pensava di non tornare più alla sua Toscana. Successivamente, i versi di Eliot trasmutano attraverso una sorta di combattimento interiore, tra la salita verso l’alto e il peso terreno che trattiene e rende incerti. Poi, le parole sembrano investite dal vento, terse come nuvole, e si trasformano in preghiera. ST. Eliot si rivolge a Dio in modo incessante e intenso. Prosegue con immagini di un paesaggio stupefacente, dove la natura si mostra con i suoi elementi più belli, dove sembra giardino anche il deserto, e animali simbolici: l’aquila, tre leopardi bianchi, la cavalletta… Risalendo agli stilemi del Dolce Stil Novo, Eliot parla di una donna amata e poi parla della Vergine, l’unica Rosa, Signora dei Silenzi: mescola e trasfigura l’amore terreno che diventa purissimo amore spirituale.
Maria, Sorella benedetta, santa madre, spirito della fonte, spirito del giardino
Non permettere che ci si irrida con la falsità
Insegnaci a aver cura e a non curare
Insegnaci a starcene quieti.
Parole che, rispetto alla prima parte del poema, sono ormai staccate dalla dimensione materiale, prima descritta come un teschio e nude ossa, poi smaterializzandosi nella voce dell’anima. Non intendiamo addentrarci nelle difficili esegesi letterarie ma invitiamo, proprio oggi, a leggere questi bellissimi versi per lasciarci trasportare dalla sua suggestione, dalla musicalità, dai colori e dal suo significato profondo, che ci consola. Per immergerci nella bellezza, anzi da essa farci travolgere, in una primavera che è ormai imminente. Perché il senso di paura e sbigottimento lasci spazio alla speranza.
Nel giorno delle Ceneri, e in un periodo difficile come questo, seguiamo l’invito del Papa: preghiamo e digiuniamo. E rendendo grazie per la bellezza di ciò che ancora ci circonda, e dalla quale non ci si deve sentire mai separati, volgiamoci a Dio, perché oda il nostro grido.
Mercoledì delle Ceneri
I
Perch’i’ non spero di ritornare
Perch’i’ non spero
Perch’i’ non spero di tornare
Desiderando di questo il talento e dell’altro lo scopo
Non posso più sforzarmi di raggiungere
Simili cose (perché l’aquila antica dovrebbe spalancare le sue ali?)
Perché dovrei rimpiangere
La svanita potenza del regno consueto?
Poiché non spero più di conoscere
La gloria incerta dell’ora positiva
Poiché non penso più
Poiché ormai so di non poter conoscere
L’unica vera potenza transitoria
Poi che non posso bere
Là dove gli alberi fioriscono e le sorgenti sgorgano,
perché non c’è più nulla
Poiché ora so che il tempo è sempre il tempo
E che lo spazio è sempre ed è soltanto spazio
E che ciò che è reale lo è solo per un tempo
E per un solo spazio
Godo che quelle cose siano come sono
E rinuncio a quel viso benedetto
E rinuncio alla voce
Poiché non posso sperare di tornare ancora
Di conseguenza godo, dovendo costruire qualche cosa
Di cui allietarmi.
E prego Dio che abbia pietà di noi
E prego di poter dimenticare
Queste cose che troppo
Discuto con me stesso e troppo spiego
Poiché non spero più di ritornare
Queste parole possano rispondere
Di ciò che è fatto e non si farà più
Verso di noi il giudizio non sia troppo severo
E poiché queste ali più non sono ali
Atte a volare ma soltanto piume
Che battono nell’aria
L’aria che ora è limitata e secca
Più limitata e secca della volontà
Insegnaci a aver cura e a non curare
Insegnaci a starcene quieti.
Prega per noi peccatori ora e nell’ora della nostra morte
Prega per noi ora e nell’ora della nostra morte.
II
Signora, tre leopardi bianchi sedevano sotto un ginepro
Nella frescura del giorno, nutriti a sazietà
Delle mie braccia e del mio cuore e del mio fegato
e di quanto
Era stato contenuto nel cavo rotondo del mio cranio. E Dio disse
Vivranno queste ossa? vivranno
Queste ossa? E tutto quanto era stato contenuto
Nelle ossa (che già erano aride) disse stridendo:
Per la bontà di questa Signora
E per la sua grazia, e perché
Ella onora la Vergine in meditazione,
Noi risplendiamo con tanta lucentezza. E io che sono
Qui dismembrato offro all’oblio le mie gesta, e il mio amore
Alla posterità del deserto e al frutto della zucca.
È questo che ristora
Le mie viscere le fibre dei miei occhi e le porzioni indigeste
Che i leopardi rifiutano. La Signora si è ritirata
In una bianca veste, alla contemplazione, in una bianca veste.
Che la bianchezza dell’ossa espii fino all’oblìo.
In esse non c’è vita. E come io sono dimenticato e vorrei essere
Dimenticato, così vorrei dimenticare
Consacrato in tal modo, ben saldo nel proposito.
E Dio disse
Profetizza al vento, al vento solo perché
Il vento solo darà ascolto. E le ossa cantarono stridendo
Col ritornello della cavalletta, dicendo
Signora dei silenzi
Quieta e affranta
Consunta e più integra
Rosa della memoria
Rosa della dimenticanza
Esausta e feconda
Stanca che doni riposo
La Rosa unica
Ora è il giardino
Dove ogni amore finisce
Terminato il tormento
Dell’amore insoddisfatto
Il più grande tormento
Dell’amore soddisfatto
Fine dell’infinito
Viaggio verso il nulla
Conclusione di tutto ciò
Che non può essere concluso
Linguaggio senza parola
E parola di nessun linguaggio
Grazia alla Madre
Per il Giardino
Dove tutto l’amore finisce.
Sotto un ginepro le ossa cantarono, disperse e rilucenti
Noi siamo liete d’essere disperse, poco bene facemmo l’una all’altra,
Nella frescura del giorno sotto un albero,
con la benedizione della sabbia,
Dimenticando noi stesse e l’un l’altra, unite
Nella serenità del deserto. Questa è la terra che voi
Spartirete. E né divisione né unione
Hanno importanza. Questa è la terra. Ecco, abbiamo la nostra eredità.
III
Là dalla prima rampa della seconda scala
Mi volsi e vidi in basso
La stessa forma avvinta alla ringhiera
Sotto la nebbia nell’aria fetida
In lotta col demonio delle scale
Dall’ingannevole volto della speranza e della disperazione.
Alla seconda rampa della seconda scala
Li lasciai avvinghiati, volti in basso;
Non v’erano più volti e la scala era oscura,
Scheggiata e umida, come la bocca guasta
E bavosa di un vecchio, o la gola dentata di un antico squalo.
Là sulla prima rampa della terza scala
Una finestra a inferriata con il ventre gonfio
Come quello di un fico e al di là
Del biancospino in fiore e della scena agreste
Quella figura dalle spalle ampie vestita in verde e azzurro
Affascinava il maggio con un flauto antico.
Sono dolci le chiome arruffate, le chiome brune arruffate sulla bocca,
Lillà e chiome brune;
L’ansia, la musica del flauto, le pause e i passi della mente sulla terza scala,
Svaniscono, svaniscono; al di là della speranza e al di là della disperazione
La forza sale sulla terza scala.
Signore, non son degno
Signore, non son degno
ma di’ una sola parola.
IV
Colei che camminò fra viola e viola
Che camminò
Fra i diversi filari del variato verde
In bianco e azzurro procedendo, colori di Maria,
Parlando di cose banali
In ignoranza e scienza del dolore eterno
Che mosse in mezzo agli altri che già stavano andando
Che allora fece forti le fontane e fresche le sorgenti
Rese fredda la roccia inaridita e solida la sabbia
In blu di speronella, blu del colore di Maria,
Sovegna vos
Ecco gli anni che passano in mezzo, portando
Lontano i violini e i flauti, ravvivando
Una che muove nel tempo fra il sonno e la veglia, che indossa
Luce bianca ravvolta, di cui si riveste, ravvolta.
Passano gli anni nuovi ravvivano
Con una splendida nube di lacrime, gli anni, ravvivano
La rima antica con un verso nuovo. Redimi
Il tempo. Redimi
La visione non letta nel sogno più alto
Mentre unicorni ingioiellati traggono il catafalco d’oro.
La silenziosa sorella velata in bianco e azzurro
Fra gli alberi di tasso, dietro il dio del giardino,
Il cui flauto tace, piegò la testa e fece un cenno ma non
parlò parola
Ma la sorgente zampillò e l’uccello cantò verso la terra
Redimi il tempo, redimi il sogno
La promessa del verbo non detto e non udito
Finché il vento non scuota mille bisbigli dal tasso
E dopo questo nostro esilio
V
Se la parola perduta è perduta, se la parola spesa è spesa
Se la parola non detta e non udita
È non udita e non detta,
Sempre è la parola non detta, il Verbo non udito,
Il Verbo senza parola, il Verbo
Nel mondo e per il mondo;
E la luce brillò nelle tenebre e
Il mondo inquieto contro il Verbo ancora
Ruotava attorno al centro del Verbo silenzioso
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà
La parola? Non qui, ché qui il silenzio non basta
Non sul mare o sulle isole, né sopra
La terraferma, nel deserto o nei luoghi di pioggia,
Per coloro che vanno nella tenebra
Durante il giorno e la notte
Il tempo giusto e il luogo giusto non sono qui
Non v’è luogo di grazia per coloro che evitano il volto
Non v’è tempo di gioire per coloro che passano in mezzo al rumore e negano la voce
Pregherà la sorella velata per coloro
Che vanno nelle tenebre, per coloro che ti scelsero e si oppongono
A te, per coloro che sono straziati sul corno fra stagione e stagione, tempo e tempo,
Fra ora e ora, parola e parola, potenza e potenza, per coloro che attendono
Nelle tenebre? Pregherà la sorella velata
Per i fanciulli al cancello
Che non lo varcheranno e non possono pregare:
Prega per coloro che ti scelsero e ti si oppongono
O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
Pregherà la sorella velata fra gli alberi magri di tasso
Per coloro che l’offendono e sono
Terrificati e non possono arrendersi
E affermano di fronte al mondo e fra le rocce negano
Nell’ultimo deserto e fra le ultime rocce azzurre
Il deserto nel giardino il giardino nel deserto
Della secchezza, sputano dalla bocca il secco seme di mela.
O mio popolo.
VI
Benché non speri più di ritornare
Benché non speri
Benché non speri di ritornare
A oscillare fra perdita e profitto
in questo breve transito dove i sogni si incrociano
Il crepuscolo incrociato dai sogni fra nascita e morte
(Benedicimi padre) sebbene non desideri più di desiderare queste cose
Dalla fìne finestra spalancata verso la riva di granito
Le vele bianche volano ancora verso il mare, verso il mare volano
Le ali non spezzate
E il cuore perduto si rinsalda e allieta
Nel perduto lillà e nelle voci del mare perduto
E Io spirito fragile s’avviva a ribellarsi
Per la ricurva verga d’oro e l’odore del mare perduto
S’avviva a ritrovare
Il grido della quaglia e il piviere che ruota
E l’occhio cieco crea
Le vuote forme fra le porte d’avorio
E l’odore rinnova il sapore salmastro della terra sabbiosa
Questo è il tempo della tensione fra la morte e la nascita
Il luogo della solitudine dove tre sogni s’incrociano
Fra rocce azzurre
Ma quando le voci scosse dall’albero di tasso si partono
Che l’altro tasso sia scosso e risponda.
Sorella benedetta, santa madre, spirito della fonte, spirito del giardino
Non permettere che ci si irrida con la falsità
Insegnaci a aver cura e a non curare
Insegnaci a starcene quieti
Anche fra queste rocce,
E’n la Sua volontade è nostra pace
E anche fra queste rocce
Sorella, madre
E spirito del fiume, spirito del mare,
Non sopportare che io sia separato
E a Te giunga il mio grido.