Su L’Osservatore Romano un’ampia sintesi del dialogo ospitato ieri nella sede della Radio Vaticana tra il presidente del Dicastero per la Cultura e l’Educazione e il velocista e campione olimpico a Tokyo
L’Osservatore Romano
Cardinale de Mendonça — Sono molto grato per la possibilità di questo incontro con Filippo per dialogare insieme su questioni che toccano la vita. Perché parlare di sport è parlare della nostra umanità e della forma della nostra umanità oggi. Lo sport non deve essere visto soprattutto come una forma di intrattenimento o come un’espressione di una tecnicità, come se un atleta fosse una macchina. Prima di tutto un atleta è una persona umana. Filippo corre senz’altro con la tecnica che ha imparato, con tutta la sua disciplina e con i suoi muscoli. Ma corre anche con il suo cuore, con la sua testa, con il suo sogno di essere persona, con la capacità di essere con gli altri. La gioia di una vittoria, e non solo nella prova di staffetta, è sempre condivisa. Ma sicuramente nella vita di un atleta esistono anche sconfitte condivise. Per questo la corsa è anche una parabola della nostra umanità.
Filippo Tortu — Grazie per avermi dato la possibilità di essere qui, in Vaticano, a parlare con voi. Mentre guardavo il video con la mia storia sportiva ho cercato di immaginare cosa poter raccontare. Ed ero anche riuscito a trovare due o tre punti… devo dire che sono stati tutti elencati da questo bellissimo discorso introduttivo che lei ha fatto e che mi ha realmente colpito. Oggi potrei parlare di quanto un atleta si debba sacrificare, di quanto allenamento, di quanta tecnica, di quanta preparazione ci sia dietro ogni momento di ogni gara. Proprio riguardando le immagini che sono state ora mostrate, ho pensato a tutte le ore passate con i miei allenatori. Eppure, quando rivedo il video della vittoria nella staffetta all’Olimpiade di Tokyo, ciò che più mi emoziona è il frammento di un’immagine: quando sono arrivato al traguardo e ho abbracciato Fausto, il mio compagno di staffetta. Sì, proprio quello è il momento che più mi emoziona. E mi sto emozionando anche in questo momento nel ricordarlo. Perché in quell’abbraccio c’è il significato di ciò che per me è lo sport. Quando ho tagliato il traguardo olimpico, con lo sguardo ho cercato, nella tribuna, tutte le persone alle quali voglio bene e con le quali avevo condiviso il percorso verso Tokyo: è stata la prima e unica volta che ho pianto e mi sono emozionato per l’atletica. Sacrificio è una parola che, nello sport, a me non piace. Anzitutto lo sport, secondo me, ti insegna a rapportarti con te stesso. Soprattutto nel mio caso perché l’atletica è uno sport individuale e devi confrontarti con te stesso. Così facendo ti metti di fronte ai tuoi sogni più grandi e, di conseguenza, alle tue paure più grandi. All’Olimpiade di Tokyo abbiamo vinto. Ma c’è anche la sofferenza quando perdi e proprio nell’esp erienza della sconfitta riesci a comprendere chi sei e chi puoi essere. Questo mi ha insegnato l’Olimpiade. Ho sempre detestato il motto “l’importante non è vincere ma partecipare”: lo considero da perdenti, io vado a gareggiare per vincere. Eppure durante l’Olimpiade, vivendo prima una grossa delusione nella mia gara individuale, ho capito che la cosa importante era stato dare tutto me stesso per essere lì, in quel momento, a correre: aver condiviso un percorso con persone che sono diventate una famiglia. Certamente mio padre, che è anche il mio allenatore, i miei compagni, i fisioterapisti… A Tokyo ho capito che l’importante non era tagliare il traguardo per primo, ma essere consapevole di aver fatto tutto il possibile per arrivare proprio lì, in quel momento. Questa consapevolezza mi ha permesso di cambiare come persona e, di conseguenza, come atleta e anche di correre più veloce di quanto non avessi mai fatto. Questo è accaduto in cinque giorni. Devo dire che quei cinque giorni mi hanno profondamente cambiato come persona. Una questione sulla quale mi piacerebbe confrontarmi con lei è questa: pratico uno sport individuale, passo tanto tempo da solo. Guardandomi dentro ho imparato a capire e ad apprezzare quanto sia importante essere in pace con se stessi per essere in pace con gli altri.
Cardinale de Mendonça — Le tue parole mi fanno pensare a quanto è scritto sul tempio di Apollo a Delfi: “Conosci te stesso”. Credo che si debba parlare dell’innamoramento e sicuramente Filippo è una persona innamorata. È stato molto interessante ascoltare questa costruzione di interiorità da atleta. Anche il monaco — come lo studioso in università, il contemplativo e, appunto, l’atleta — passa tanto tempo da solo, testando se stesso, ascoltando se stesso. Così, alla fine, si costruisce come persona. L’impegno, così ben descritto nelle tue parole, di trovare pace con se stesso è il desiderio che tutti abbiamo. Che questa esperienza si possa trovare nello sport è molto interessante: quello che Filippo dice di un atleta, noi lo possiamo dire di un contemplativo, di qualcuno che cerca una esperienza spirituale mettendo in gioco tutta la persona. Una curiosità, Filippo: i piedi. Ho fatto l’esperienza nei miei pellegrinaggi a Santiago de Compostela e a Fátima: arriva un momento in cui a pregare sono i nostri piedi, non è più la testa. Hai sperimentato anche tu questa esperienza nella corsa veloce?
Filippo Tortu — Ci sono momenti in cui i piedi sono staccati da terra. Vanno da soli. Mi è capitato proprio un’ora fa, prima di arrivare qui in Vaticano. Ero ad allenarmi e l’ultima prova ho chiesto di non farla perché ero troppo stanco, non sentivo che potesse tornarmi utile. Naturalmente il mio allenatore vede sempre più lontano di me e ha insistito. Ha avuto ragione perché dopo il secondo appoggio sono stati i piedi a “p ortarmi”: ho dovuto semplicemente “farli andare” e “stargli dietro”. Sembra un controsenso: quando correndo si cerca la velocità, in realtà si va piano. Quando tu “forzi”, in realtà ti irrigidisci. Cosa devi fare per correre più veloce? Semplicemente fidarti di tutto quello che hai fatto in allenamento e che hai imparato negli anni. Sì, ricordare anche due o tre “cose tecniche”, certo… ma poi viene tutto naturale. Devi essere sereno, sicuro, ma non per arroganza, anche se il velocista un pochino arrogante in pista, solo in pista, dovrebbe esserlo. Devi essere sereno e sicuro per tutto l’allenamento svolto e perché, in fin dei conti, stai facendo quello che più ti piace e ti riesce meglio.
Cardinale de Mendonça — Filippo, hai usato un’espressione che mi ha fatto pensare parlando della figura dell’allenatore. L’hai descritto molto bene: l’allenatore vede sempre più lontano. Mi piacerebbe ascoltarti su questo rapporto con l’a l l e n a t o re che noi in altri campi — p ensiamo nella tradizione dei pittori — chiamiamo maestro. Come vivi il tuo rapporto con l’allenatore e come interpreti questa figura così fondamentale per un atleta?
Filippo Tortu — Il mio allenatore è mio padre. Per raccontare il nostro rapporto ricorro a quanto ho imparato a catechismo: la questione sta proprio nella libertà di sbagliare. Dio ti mette sempre di fronte alla possibilità di scegliere e mio padre ha fatto lo stesso con me. Avere l’allenatore in casa può essere complicato: se una sera torni tardi lui dovrebbe sgridarti. Mio padre, invece, mi ha sempre dato la possibilità di scegliere liberamente, come a dire “questa è la strada se vuoi fare l’atleta, ma scegli tu”. Mi sono detto: sono libero di fare quello che voglio ma non voglio sbagliare. Ma il merito è suo: oltre a essere un buon padre è un ottimo allenatore. Abbiamo un rapporto basato sul dialogo: decide l’allenatore che, però, vuole sempre sapere la mia opinione su quello che stiamo facendo. Penso anche che sappia già le mie risposte… Insieme a mio padre c’è un’altra persona che si occupa, in particolare, della fisioterapia. Da quando ero piccolo ho sofferto la mancanza della figura del nonno e così vedo questo mio tecnico come il nonno acquisito. È importante andare ogni giorno ad allenarmi sapendo, dentro di me, di avere i due migliori allenatori del mondo. Meglio, per me è importante sapere di trovare due persone capaci di farmi stare bene. Credo sia l’aspetto più importante nel rapporto tra allenatore e atleta.
Cardinale de Mendonça — Hai incontrato personalmente Papa Francesco. In qualche modo, lo si può descrivere come un uomo che guarda più lontano, così come tu hai definito l’allenatore.
Filippo Tortu — Sì, il Papa è un uomo che sa guardare più lontano. Che tu sia credente o meno, il Santo Padre rappresenta “qualcosa” di molto più grande e cioè l’aspetto spirituale della persona. Per questa ragione ti senti “to ccato” come uomo. Ricordo benissimo l’incontro con il Papa. Solitamente il giorno prima di una gara cerco di non stancarmi: quasi non esco dalla mia stanza e cerco di fare pochi passi. Ma quando mi hanno detto che c’era la possibilità di incontrare Papa Francesco sono voluto andare in piazza San Pietro: alla vigilia di una gara importante allo stadio Olimpico sono stato due ore al sole, anche in piedi. Ma devo anche far presente che il giorno dopo la gara è andata molto bene…
Cardinale de Mendonça — Ascoltandoti, credo che esista una scintilla che fa scattare l’amore per la corsa. Come anche per la poesia. Ed è quando una persona dimentica se stessa, il tempo e la fatica: ecco l’amore.
Filippo Tortu — Sì, ho sempre desiderato essere un atleta e a 17 anni ho iniziato a farlo per lavoro. Per questo a me non piace parlare di sacrificio. Ci sono persone che ottengono grandi risultati ma vivono una vita sregolata fuori dal campo: non li reputo sportivi, anche se fossero i migliori del mondo. Mi sono “votato” all’atletica, mi fa stare bene, e sono convinto che le scorciatoie non porteranno mai alla versione migliore di te stesso — mentalmente e fisicamente — che è, poi, il vero obiettivo dello sport. Con questo spirito ho anche scelto di studiare all’Università. Proprio oggi mi sono sentito con il tutor per preparare un esame. Sinceramente ho vissuto un periodo complicato con l’università, ma ho capito che in quel modo la mia vita non andava bene e ho deciso di obbligarmi a trovare, all’interno della giornata, gli spazi giusti per studiare.
Cardinale de Mendonça — Una bella parola italiana, per uno straniero come me, è “apripista”: non solo stare sulla pista, ma aprire piste nuove, creare nuove visioni e nuove possibilità. Un atleta scopre quello che diceva Kierkegaard: l’uomo è soprattutto possibilità. Sono molto contento, anche come prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione, della testimonianza di Filippo. Vero, gli studi non sono facili da far coincidere con la vita di atleta di alto livello. In questo sforzo di aprire piste un esempio è Papa Francesco che alla parola educazione associa la parola speranza, tanto che alle volte sembrano sinonimi. Se nelle nostre vite investiamo nell’educazione stiamo allargando il nostro campo di speranza. Recentemente, parlando a studenti e professori delle Università pontificie romane, il Santo Padre ha usato una metafora forte: “Fate coro”. E nei cori, a volte, ci sono i solisti perché è importante anche la capacità di essere protagonista. Ma c’è soprattutto la coscienza che siamo un “coro” e che nessuno si salva da solo. Una poetessa ci ricorda anche che siamo “un’opera degli altri”. La solitudine ha in sé un valore ed è la possibilità dell’uomo di entrare dentro se stesso. Ma la nostra vocazione è essere questo “coro” che ci offre la gioia di vivere in compagnia, di condividere questa avventura, questa corsa magnifica che è la vita.
Filippo Tortu — L’atletica è uno sport individuale, effettivamente tu corri da solo. Ma in realtà, nel momento in cui tu scendi in pista e sei dietro i blocchi, rappresenti anche la sintesi di un lavoro che coinvolge tantissime persone capaci di metterti nelle migliori condizioni possibili per arrivare al meglio alla gara. Se sbagli la corsa vanifichi un grande lavoro di squadra. È una responsabilità che sento e mi aiuta a dare il meglio di me. Del resto, quando ti devi sacrificare anche per qualcun altro riesci a fare… “qualcosina” in più. Per questo abbiamo vinto la staffetta all’Olimpiade. La somma dei nostri quattro tempi era peggiore a quella di altre squadre. Però eravamo convinti di poter vincere e, soprattutto, volevamo vincere come gruppo. Come squadra. Questo ha fatto la differenza.