di Alessandro Gisotti
«Ho sempre avuto difficoltà ad accettare la fragilità. Anche quando ero capo scout, nel mio gruppo cercavo di defilarmi quando ci si confrontava con questo tema». Il ricordo di Alberto Belloni corre lontano, a quando era ragazzo. Oggi ha 56 anni, da 40 vive a Roma. Dirigente delle Ferrovie dello Stato, la passione per lo scoutismo gli è rimasta, anzi è cresciuta — fa parte del Consiglio nazionale delle guide e scout d’Europa cattolici — ma è proprio quella “fragilità” che non riusciva ad accettare ad essere diventata un valore fondamentale della sua vita in famiglia come nel lavoro. «Con mia moglie — ricorda — ci siamo conosciuti da giovani proprio in ambiente scout. Quando abbiamo cominciato a parlare di figli, le dicevo che avrei voluto che facesse l’amniocentesi. La sua risposta ancora mi risuona nel cuore: “Va bene, ma qualsiasi sarà il risultato, io porterò avanti la gravidanza”». Una dichiarazione che anni dopo avrà un significato particolare.
Alberto e Antonella hanno due figli. Il primo, Alessio, si è laureato in ingegneria questa estate. Il secondo, Matteo, ha 19 anni. Un ragazzo autistico non verbalizzato che ha bisogno di un sostegno speciale. La sua forma di autismo non gli ha permesso di apprendere a leggere e scrivere, ma vive con naturalezza la socializzazione con gli altri, non è isolato. «Fino al primo anno e mezzo — rammenta Alberto — tutto era andato bene. Poi ci siamo resi conto che Matteo aveva dei grossi problemi. All’inizio abbiamo dovuto interiorizzare questa situazione. Poi ci siamo affidati al Signore». Questo è stato reso più facile anche grazie al Movimento di Schoenstatt di cui Alberto e Antonella fanno parte e che, negli anni, ha rafforzato la sua fede e una particolare devozione alla Vergine Maria. «È stato un percorso lungo, anche sofferto — ammette Belloni — però posso dire che non ho mai dubitato che ce l’avremmo fatta e che quel percorso lo dovevamo percorrere insieme come famiglia. E così le energie per affrontare la situazione le abbiamo sempre trovate».
Alberto racconta come questa fragilità in famiglia abbia sorprendentemente rappresentato un valore aggiunto nel suo lavoro, piuttosto che un limite come si potrebbe essere portati a pensare. «Io non ho mai nascosto Matteo — sottolinea — non ho mai nascosto questa sua condizione. Tutti nell’ambito lavorativo sanno che ho un figlio disabile e anzi ho voluto che i miei colleghi conoscessero la mia famiglia e conoscessero Matteo». L’esperienza della famiglia Belloni diventa un’ulteriore occasione per le Ferrovie dello Stato di crescere nell’inclusione e di permettere al proprio personale con strumenti di flessibilità di coniugare impegni lavorativi e familiari come nel caso di Alberto. «Il mio lavoro — spiega — è nell’area dell’internal audit. Quindi, sono chiamato a valutare il lavoro dei colleghi. Un compito delicato, dove conta molto il modo con cui ti relazioni con l’altro. Ecco, sono convinto che avere un figlio come Matteo abbia “potenziato” le mie qualità di ascolto, di comprensione dei problemi, di valutazione del lavoro. Queste mie soft skills mi hanno anche permesso di capire meglio i problemi personali e di essere un punto di riferimento per i colleghi che mi hanno eletto a coordinatore della rappresentanza sindacale aziendale dei dirigenti».
Tutto questo, ne è convinto Belloni, è frutto del rapporto con Matteo e con la sua fragilità. «Una relazione — afferma — che mi aiuta anche a far sì che il lavoro non sia totalizzante per me. Matteo mi insegna molto: ha una visione diversa della vita. I ragazzi autistici ti colpiscono per la visione semplice delle cose, senza filtri. Quando ti guardano, esprimono tantissimo con il loro sguardo. Ti bucano l’anima! Per questo, per me, c’è la famiglia e il lavoro, due mondi che devono comunicare tra loro. Il lavoro è una componente importante della mia vita, ma non è la totalità».
Famiglia, lavoro e servizio. Alberto ci tiene a sottolineare che c’è anche un terzo pilastro nella sua vita che nasce sempre dall’essere padre di un figlio con esigenze particolari. «Negli anni — ricorda — mi sono confrontato con i problemi che doveva affrontare Matteo e mi sono reso conto che non tutti i genitori hanno la fortuna di avere una preparazione culturale e una disponibilità economica come la mia. E così, sempre più, ho iniziato a impegnarmi per altri ragazzi con diverse forme di disabilità». Ricorda quindi la battaglia per permettere che suo figlio, e così tutti i ragazzi autistici, possano avere un assistente anche se alunni di una scuola parificata. Battaglia vinta dopo un ricorso al Tar di Roma e una sentenza del Consiglio di Stato. «Il mio numero di telefono — confida — è a disposizione di tutti. Io so di essere fortunato perché la mia famiglia, la mia fede, il mio lavoro mi danno solidità. Posso affrontare serenamente le difficoltà e allora sento che devo aiutare gli altri. C’è tanta gente, tanti genitori con figli disabili che non sanno nemmeno quali siano i propri diritti o non sanno come farli valere».
Alberto è particolarmente orgoglioso di quello che ha potuto fare all’interno degli Scout d’Europa di cui oggi è Responsabile nazionale dello Sviluppo associativo. «Dal 2012 — afferma — ho cominciato a lavorare con Maddalena, un capo scout che ha anche lei una figlia disabile, per favorire una reale inclusione dei più fragili. Ho costituto un gruppo, “una pattuglia” come la chiamiamo noi scout, che si dedicasse proprio ai ragazzi con difficoltà. A luglio scorso, abbiamo realizzato il primo campo di specializzazione per l’inclusione dei ragazzi disabili nello scoutismo. Abbiamo avuto dieci allievi ed è stato un vero successo. I capi scout che accolgono un giovane disabile non devono mai essere lasciati da soli. Devono sentire che dietro c’è tutta l’associazione. Siamo ora sulla buona strada anche grazie all’aiuto di persone come suor Veronica Donatello, la responsabile per la Cei della pastorale delle persone con disabilità».
Questo spirito di servizio permea tutta la famiglia Belloni, non solo la vita di Alberto. Il figlio più grande, Alessio, è catechista e capo scout. Con la moglie, anche lei catechista e capo scout, fanno parte dell’équipe pastorale della loro parrocchia, e anche Matteo quest’anno ha dato una mano in cambusa con i “lupetti”. «Questa — dice con emozione — è proprio la famiglia come ho voluto e ho cercato di costruire. All’inizio non ho capito bene quale fosse il progetto per la mia famiglia ma poi ho compreso che il nostro doveva essere un percorso di servizio agli altri. A me non piacciono quei cattolici che si lamentano per le cose che non vanno. Voglio essere un cattolico che fa. Servire con serenità e gioia».
Alberto è molto grato a Papa Francesco per la sua attenzione alle fragilità e in particolare ai giovani con disabilità. «Anche in ambito cattolico — afferma — tante porte si sono potute aprire grazie alla linea che lui ha dettato sul tema della disabilità. Mio figlio ha fatto la prima comunione solo a 16 anni. Ancora ci sono resistenze, spesso dovute all’ignoranza, ma ora ci sentiamo più forti avendo un Papa che sta chiedendo a tutti i livelli ecclesiali maggiore inclusione per i disabili».
La conversazione con Alberto Belloni si conclude con un suo pensiero sulla Patris corde e su quel suo “collega” d’eccezione, quel padre lavoratore che è san Giuseppe. «A me — dice — colpisce tanto quel suo stare un passo indietro. Il suo essere solido, ma senza mettersi in primo piano. Ha il controllo di tutto, ma lo fa stando nelle retroguardie, totalmente affidato a Dio». Ma è il sogno, dimensione centrale nella figura di san Giuseppe, che affascina particolarmente Alberto. «Quando ho un dubbio, una scelta importante da prendere — ci racconta — mi affido al Signore prima di addormentarmi. Posso dire che, tante volte, proprio nella notte, proprio nel sogno, ho trovato serenità, ho trovato la decisione giusta. Anche per questo mi è molto cara la figura di san Giuseppe».