Processo vaticano, ultimo interrogatorio a Tirabassi. Al via i primi testimoni

Vatican News

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Una lunga lista di nomi e cognomi di imprenditori e consulenti che si presentavano in Segreteria di Stato, introdotti da personaggi che gravitavano intorno al Vaticano, in cerca di una “benedizione” per le loro attività, ha scandito la venticinquesima udienza del Processo nel Tribunale vaticano per presunti illeciti con i fondi della Santa Sede. A farli questi nomi e cognomi è stato Fabrizio Tirabassi, ex impiegato dell’Ufficio amministrativo, interrogato per la quarta e ultima volta. Ultima per volontà dello stesso imputato che, interrogato oggi pomeriggio per circa tre ore e mezzo dal Promotore di Giustizia recentemente nominato, Alessandro Diddi (l’udienza si è aperta con gli auguri per la nomina da parte del presidente Giuseppe Pignatone e degli avvocati), ha comunicato a fine udienza di aver detto tutto quello che poteva dire e di non voler rispondere alle domande di parti civili e difese. Dichiarazione contestata dall’avvocato Paola Severino, rappresentante civile della Segreteria di Stato, che ha sottolineato come fosse ancora cospicuo “il nostro pacchetto di domande” e di non reputare “esaustivo” l’esame a Tirabassi. Al quale, tra le altre cose, è stato chiesto conto delle monete antiche pari a un milione di euro e dei 200 mila euro in contanti sequestrati dalla Guardia di finanza in una casa in campagna in Abruzzo il 6 novembre 2020.

L’udienza di oggi, la prima dopo la pausa estiva, si è aperta nell’Aula polifunzionale dei Musei vaticani alle 14.30 e si è conclusa alle 18. Come detto, si è interamente concentrata sull’interrogatorio all’ex funzionario vaticano. Domani, giovedì 29 settembre, si concluderà invece l’interrogatorio all’avvocato Nicola Squillace, già sentito in aula a inizio luglio scorso. Per venerdì 30 si inizierà con i testimoni: i primi dovrebbero essere Alessandro Cassinis Righini, revisore generale; Gian Franco Mammì, direttore generale dello Ior; Roberto Lolato della Deloitte (quest’ultimo potrebbe essere già ascoltato domani). A proposito di testimoni, sono 27 quelli presentati dall’Ufficio del Promotore di Giustizia; tra loro non figura monsignor Alberto Perlasca, ex responsabile dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, considerato il “testimone chiave” dell’intero processo.

Il nome di Perlasca è stato pronunciato più volte da Tirabassi nelle sue risposte, sempre per ribadire che ogni azione, investimento, contatto, passava sotto la sua supervisione e autorizzazione. Era invece autonomo Tirabassi nell’intessere una rete di rapporti con diverse figure che, ha spiegato, presentavano in Segreteria di Stato progetti e richieste per chiedere sostegno e contributi. “Si faceva una valutazione e il superiore analizzava e decideva sulla base dell’efficacia economica e sociale”, ha spiegato l’imputato. Con alcuni di questi personaggi Tirabassi stava anche per stipulare accordi poi non andati in porto. La rete era così fitta che all’ex impiegato vaticano è stato chiesto se riuscisse a far combaciare queste attività con il lavoro all’interno del Dicastero.

Per buona parte dell’udienza a Tirabassi è stato chiesto conto dei redditi personali, come pure di quelli della moglie dimostratisi “stabili” nel corso degli anni. Dalle indagini è emerso infatti come il funzionario dell’Ufficio amministrativo non avesse mai movimentato il suo conto Ior. Perché? Pur reputandolo “imbarazzante”, Tirabassi ha spiegato di aver ricevuto fino al 2010 lo stipendio in contanti, così come le rendite provenienti da cinque collegi sindacali, per “enti interni al Vaticano” come la Fondazione Santa Marta o la Domus Sacerdotalis, “attribuiti sempre dall’ufficio, il cui compenso mi veniva liquidato annualmente”. Cifre che si aggiravano intorno agli 8-10 mila euro annuali. A questi si aggiungevano i premi che il capo ufficio erogava a Natale o Pasqua a dipendenti meritevoli. Insomma “una serie di extra mi consentivano di non dover prendere dallo stipendio base”, ha spiegato Tirabassi.

Sul muro dell’aula è stato proiettato un documento delle Banche svizzere del 2015 in cui si parlava di un conto Ubs intestato a Tirabassi che superava un milione e 360 mila euro. Tirabassi ha spiegato che nel 2004 aveva manifestato l’intenzione di rinunciare al suo incarico in Vaticano. L’allora responsabile dell’Ufficio amministrativo, monsignor Gianfranco Piovano, gli aveva allora concesso la procura amministrativa di due conti svizzeri. “Retrocessioni” che dai fondi finivano nel conto di Tirabassi, portandolo a guadagnare circa 200 mila euro all’anno fino alla cifra complessiva di un milione e 360 mila euro. La procura si interruppe nel 2009, con l’arrivo in ufficio di monsignor Perlasca.

“Mi scusi – ha chiesto il giudice a latere, Carlo Bonzano – in cambio della sua permanenza Piovano le ha offerto questa procura?”. “Sì, io non sapevo neanche le somme che sarebbero state riconosciute”, ha risposto Tirabassi. Quasi un “salto nel buio”: “C’era un incarico, è stata una sorpresa positiva”. “E per Piovano era assolutamente normale che lei incassasse 200-300 mila euro l’anno per fare il suo lavoro?”, ha domandato il presidente Pignatone. “Non deve sorprendere”, ha replicato l’imputato, spiegando di occuparsi di rapporti bancari, lavoro che “incrementava” di anno in anno.

Più volte, nel corso dell’interrogatorio, è intervenuto l’avvocato difensore, Cataldo Intrieri, per opporsi a domande che, a suo parere, esulavano da quelli che erano i capi di imputazione. In particolare il legale si è opposto alle domande del Promotore di Giustizia sulle monete preziose del valore di un milione e i 200 mila euro in contanti sequestrati nella casa di Tirabassi a Celano, in provincia de L’Aquila. Il sequestro era stato annullato dal Tribunale del Riesame di Roma che ha disposto la restituzione di questi beni, ha detto Intrieri, sottolineando che la restituzione non è “mai avvenuta” a distanza di un anno e che le Autorità vaticane non stanno adempiendo ad un atto della magistratura italiana. Inoltre, ha aggiunto il difensore, “a monte c’è una procedura illegittima, quindi come fonte probatoria quei provvedimenti non esistono”. In altre parole, non era possibile porre domande su questi beni.

Per un quarto d’ora i giudici si sono ritirati in Camera di consiglio per decidere dell’opposizione. Con un’ordinanza Pignatone ha rigettato l’istanza della difesa, affermando che invece domande potevano essere fatte sulla questione ma che l’imputato poteva avvalersi della facoltà di non rispondere. Tirabassi ha invece spiegato che le monete e il denaro contante appartenevano a suo padre Onofrio, ex dipendente vaticano con la passione per la numismatica e la filatelia che, una volta in pensione negli anni ‘60, si è dedicato al collezionismo, collaborando anche con il Governatorato. Quei beni erano “i suoi risparmi e la sua vita”. “Mio padre – ha detto Tirabassi – era restio a depositare denaro in banca, perché era stato soggetto a rapina a mano armata, scippo, furti.. Riteneva più prudente e sicuro conservare questi beni e differenziare in modo più sicuro la custodia. Io non avevo nulla a che vedere”. Col padre Tirabassi collaborò invece per la sua società Interfinum: “Più che altro facevo da tramite per portare la documentazione al commercialista che era lontano, gli leggevo pratiche, email”. Il papà riconosceva quel lavoro “e mi fatturava piccole somme in maniera trasparente”. Fatture alla società: “Circa 5-10 mila euro al massimo all’anno”.