Ripreso dopo più di un mese il procedimento giudiziario per la gestione dei fondi della Santa Sede. Oggi, 18 luglio, la sessantunesima udienza con la prima delle sei udienze dedicate alle richieste del promotore di Giustizia: “Quasi arrivati al capolinea… Non è mai stato un processo contro la Segreteria di Stato, ma a funzionari che non hanno saputo interpretare lo spirito e gli ideali della Chiesa”
Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Fase finale del processo vaticano per la gestione dei fondi della Santa Sede. Dopo una pausa di quasi due mesi – l’ultima si era tenuta il 13 giugno – si è svolta nel pomeriggio di oggi, 18 luglio, nell’Aula polifunzionale dei Musei Vaticani la sessantunesima udienza con la prima parte della requisitoria del promotore di Giustizia, Alessandro Diddi, durata circa quattro ore e incentrata principalmente, in questa prima giornata, a tracciare una panoramica generale dei fatti e delle condotte che hanno portato al rinvio a giudizio di undici persone, a cominciare dalla compravendita per il palazzo di Londra.
Corruzione
Prima giornata perché l’accusa, ha detto Diddi, avrà bisogno di almeno altre cinque udienze per ricostruire fatti e storie intrecciate che, a suo dire, confermano – a due anni dall’inizio del processo – la validità dell’impianto accusatorio. Oggi, quindi, l’arringa sul reato di corruzione espletato all’interno della Segreteria di Stato: non ovviamente “dalla” Segreteria di Stato, ma da alcune persone che vi lavoravano. “Non è un processo alla Segreteria di Stato, ma ad alcuni funzionari o meglio ‘servitori’ che non hanno saputo interpretare lo spirito e gli ideali della Chiesa a cui attenere nello svolgimento della professione”, ha detto Diddi, in riferimento agli imputati il cardinale Giovanni Angelo Becciu, sostituto all’epoca dei fatti, l’ex funzionario dell’ufficio amministrativo, Fabrizio Tirabassi, ed Enrico Crasso, per anni consulente finanziario.
Prossime udienze
Domani il focus sarà sul palazzo di Sloane Avenue e gli investimenti immobiliari del manager Raffaele Mincione (imputato) e dopodomani, 20 luglio, sui reati di truffa ed estorsione e la vicenda dell’AIF, l’Autorità di informazione finanziaria, i cui ex presidente e direttore (Reené Brühllart e Tommaso Di Ruzza) siedono anch’essi al banco degli imputati. Poi si proseguirà fino alla prossima settimana, quando Diddi presenterà al Tribunale vaticano, presieduto da Giuseppe Pignatone, le richieste nei confronti dei dieci imputati, per capi di accusa – ha fatto notare il promotore – in violazione di leggi modificate o introdotte tra i pontificati di Benedetto XVI e Francesco. In particolare la legge IX del luglio 2013 sui reati finanziari, contenente modifiche al Codice penale e di Procedura penale.
Il contraddittorio utile
Iniziata alle 15.30 con un minuto di silenzio per la prematura scomparsa del professor Enrico Rinaldi, che aveva preso parte al processo come difesa di Di Ruzza, l’udienza ha visto i ringraziamenti iniziali di Alessandro Diddi che, osservando che “siamo arrivati al capolinea di questo processo lungo e articolato”, ha espresso “apprezzamento per il lavoro non facile del Tribunale” che ha permesso un confronto “sulla capacità di tenuta del sistema giudiziario” e anche ai legali della difesa, “nonostante alcuni momenti di tensione”. “Il contraddittorio è servito ad applicare correttamente la legge e chiarire aspetti non chiariti”, ha detto.
“L’impianto accusatorio credo che abbia tenuto, hanno tenuto i fatti, sarebbe stato altrimenti una grossa sconfitta per noi se i fatti – come ricostruiti – in qualche modo non fossero costruiti correttamente”, ha aggiunto il promotore di Giustizia. Invece “nonostante il grande sforzo delle difese” e grazie alle consulenze tecniche sarebbero, secondo Diddi, confermati tutti i fatti “inanellati” in sette anni (dal 2012 al 2019) e ricostruiti dalle indagini, avviate dopo “due piccolissime denunce”: quella dello IOR (due pagine) e dell’Ufficio del Revisore Generale (nove pagine) che reclamavano l’“esistenza di reati gravissimi”.
La figura di Perlasca
“Non ci siamo mossi seguendo un teorema”, ha chiarito il promotore, “l’avvio delle indagini ci ha portato fino ad oggi senza sapere dove saremmo arrivati, senza togliere nulla all’importanza delle intenzioni autori”. Diddi, volendo sgombrare il campo da alcuni “equivoci” e “rappresentazioni mediatiche”, ha spiegato che l’ufficio da lui guidato “non aveva nessun tipo di idea preconcetta” e che, nel corso delle indagini, sono state “toccate figure poi archiviate”. Il riferimento è a monsignor Alberto Perlasca, ex direttore dell’Ufficio Amministrativo della Segreteria di Stato, indagato inizialmente ma mai rinviato a giudizio. Perché? “Ci è sembrato anche lui vittima, piuttosto che partecipe”, ha detto l’avvocato, “Perlasca non è né un super testimone, né un super pentito come si è detto. E sono stato contento che ci sia stato un approfondimento sul fatto che sia stato un testimone manipolato e manipolabile da Francesca Chaouqui e Genoveffa Ciferri (ascoltate come testimoni il 13 gennaio scorso, ndr)”. Per il promotore di Giustizia vaticano, Perlasca “va preso come una persona molto fragile che ha dato un contributo altalenante e che per noi è stato una ‘notizia di reato’ sulla quale abbiamo svolto approfondimenti per individuare circostanze che hanno portato a giudizio gli attuali imputati”. Tuttavia Diddi ha detto che si rimetteranno a qualsiasi decisione del Tribunale in merito.
Il cardinale Becciu
Quanto al cardinale Becciu – presente in Aula –, Diddi ha sottolineato che il porporato non “è stato all’inizio una persona entrata” nell’inchiesta. Tuttavia, ha affermato, lo stesso Becciu avrebbe “cercato di intromettersi all’interno delle indagini”: “Lo abbiamo scoperto dai telefonini di Perlasca, inizialmente indagato, dalle primissime chat che si susseguono, dal momento della perquisizione del 1° ottobre 2019 negli Uffici della Segreteria di Stato”. Becciu “si intromette pesantemente sulla conduzione delle indagini, su imputati per solidarizzare e poter anche attivare delle campagne stampa nei confronti dei magistrati che svolgevano le indagini”, ha detto Diddi.
Amministrazione dei fondi
Si è poi soffermato sui reati di abuso d’ufficio e peculato, ripercorrendo “flussi e vicende” per “capire la natura giuridica dei fondi amministrati”. In particolare, “la distrazione dei fondi dell’Obolo San Pietro”, in cui confluiscono le offerte dei fedeli per la carità del Papa e il sostentamento della Curia romana. Una ricostruzione, questa dell’uso illecito dell’Obolo, originata da una rappresentazione dell’Ufficio del Revisore. In realtà, ha chiarito oggi Diddi, l’Obolo aveva una “somma irrisoria, non in grado di far fronte alle spese della Curia romana, non c’erano soldi da essere investiti”. Si parla quindi di “altre somme di denaro”, cioè “una cospicua sovvenzione da parte dello IOR” alla Segreteria di Stato che dal 2004 al 2020, stando all’avvocato, arriva ad ammontare 700 milioni di euro conferiti “con specifica destinazione”: il mantenimento della Curia.
Il lavoro del cardinale Pell
Questi soldi, secondo l’accusa, sarebbero stati utilizzati invece per “operazioni scandalose” come il Credit Lombard, il trasferimento di tutta la disponibilità economica della Segreteria di Stato in un unico conto della Credit Suisse per usufruirne degli interessi. A tal proposito Diddi ha chiamato in causa anche defunto cardinale George Pell, ex prefetto della Segreteria per l’Economia. Pell “voleva guardare e illuminare una operazione per cui oggi sono stati tratti a giudizio Becciu, Crasso, Tirabassi e Mincione”, ha affermato.
“Grazie a un patrimonio gestito al di fuori delle regole, si è potuto per anni eludere le regole. Non in maniera casuale ma per vantaggio proprio”, ha affermato il promotore di Giustizia, sottolineando – sulla base anche di parole di Perlasca – che da chi allora gestiva i fondi della Segreteria di Stato non erano gradite “intromissioni”.
Inosservanza delle leggi
Durante la requisitoria è stata citata (letti anche integralmente alcuni passaggi) la Pastor Bonus, la costituzione apostolica della Curia Romana, abrogata dall’attuale Praedicate Evangelium, e il Codice di Diritto canonico per evidenziare gli illeciti e “le operazioni altamente speculative”. Diddi ha poi elencato telefonate, chat, viaggi a Milano o a Londra, contatti con finanzieri e avvocati, fee tratte da investimenti, schermature, “stecche” e “creste”, somme di denaro smobilizzate in società estere, pressioni su capi ufficio, accordi in “inosservanza delle leggi civili” che hanno “danneggiato la Chiesa” o progetti di investimenti inopportuni per la Santa Sede (“Per la prima volta si è sentito che la Chiesa poteva spendere in pozzi di petrolio”).
Torzi e Tirabassi
Ancora Diddi ha descritto Gianluigi Torzi, broker anglo-molisano al centro delle trattative di Londra, come “un personaggio naïf, dotato di grande intelligenza come dimostrano alcune chat, non uno che si sarebbe mai fatto mettere all’angolo da Crasso e Tirabassi”. Mentre su Tirabassi ha chiarito che non è affatto, secondo la sua ricostruzione, “il servo sciocco in mano a Perlasca che non si occupava di nulla” che ha voluto far credere: “Era invece in mezzo a tanti affari, ha speso più tempo per attività personali che per quelle istituzionali”.