Portare il pane nei Paesi più colpiti dal Covid

Vatican News

Marina Tomarro – Città del Vaticano

Portare aiuto e conforto alle popolazioni che già, prima del Covid, ogni giorno lottavano per vivere a causa della fame, di guerre e di carestie ma che, con l’arrivo della pandemia, hanno visto la loro situazione peggiorare tragicamente. Sono infatti aumentate le diseguaglianze e si è registrata una drastica diminuzione delle risorse essenziali per andare avanti.  È questo l’obiettivo della campagna “Dacci il nostro pane quotidiano” finalizzata a sostenere 62 interventi umanitari in Africa, Medio Oriente, Asia, America Centrale, America Latina, Europa dell’Est e Balcani, lanciata lo scorso luglio da Caritas Italiana e dalla Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario (Focsiv),  e che si avvale della partnership di Radio Vaticana, Vatican News, l’Osservatore Romano, AgenSir, Agenzia Dire, Avvenire, Famiglia Cristiana, Federazione Italiana Settimanali Cattolici, TV2000, Radio Inblu, e di Banca Etica come partner finanziario.

La Campagna del mese di marzo dedicata agli anziani

La Campagna non si ferma e, in questo mese di marzo, ha voluto porre una particolare attenzione alla situazione degli anziani, una delle categorie maggiormente colpite dal Covid. Solo in Italia, con l’emergenza coronavirus la speranza di vita è scesa a 82,3 anni, nel 2019 era di un anno più alto, 83,2. L’isolamento domestico, secondo Caritas e Focsiv, non ha consentito agli anziani neppure una minima attività fisica ed ha acuito in loro la percezione della perdita e il senso di paura per il futuro, costringendoli a rinunciare ai legami affettivi con i propri familiari. E nei Paesi più poveri la condizione della terza età è diventata ancora più drammatica dopo la pandemia. In Bangladesh, ad esempio, secondo studi pre-Covid il 62% della popolazione anziana era a rischio malnutrizione, adesso il numero è cresciuto ulteriormente. In molti altri Paesi, sono numerosi gli anziani costretti ad elemosinare per strada, in Giappone, dove cresce un’urbanizzazione veloce che sfalda i legami sociali,  i nonni muoiono sempre più spesso di solitudine. 

Milioni di persone in condizioni di vita disumane

“Da un verso in questi mesi di campagna, – spiega Paolo Beccegato vicedirettore di Caritas Italiana –  è andata consolidandosi la consapevolezza che le conseguenze della pandemia in tutto il mondo, in particolare nei Paesi più poveri, non potessero essere dimenticate, ormai siamo intorno ai 125 milioni di casi di contagio al mondo, e tra i primi posti ci sono nazioni come il Brasile e come l’India. Quindi a livello sanitario questa pandemia colpisce indistintamente tutto il mondo, ma i Paesi più poveri sono quelli più danneggiati, perché sappiamo che non hanno i sistemi sanitari e sistemi di protezione anche sociale di cui invece possono usufruire i Paesi più ricchi, per questo subiscono le conseguenze più pesanti”.

“Nell’impostare la campagna – aggiunge Beccegato – abbiamo quindi tenuto presente sia della problematica di carattere sanitario, ma anche la questione sociale che è nata insieme a quella sanitaria, non solo in Italia ma anche in tutto il resto del mondo. E quindi i vari lockdown, la crisi economica globale che stiamo affrontando tutti, ha ridotto alla fame milioni di persone, e ha comportato dei seri problemi di povertà educativa e di accesso al sistema istruttivo per tantissimi bambini e ragazzi. La situazione della donna – spiega – è peggiorata in molte nazioni, sia in termini di perdite di posti di lavoro, sia per le violenze subite. Tutta una serie di fasce particolarmente deboli e discriminate sono quelle che hanno subito di più le conseguenze della pandemia, come i migranti. Ecco abbiamo tenuto presente a livello globale, alcune grandi questioni e alcune grandi categorie, cercando poi di indirizzare i progetti verso di loro”.

Ascolta l’intervista a Paolo Beccegato

Tra i progetti seguiti c’è proprio quello della Rotta Balcanica.  In che modo avete operato con i migranti che sono li bloccati ai confini?

R – Il problema della Rotta Balcanica non è recentissimo perché, dopo il 2015 quando furono aperte le porte dell’Europa, arrivarono circa un milione di persone provenienti prevalentemente dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan, da Paesi in guerra. Subito dopo furono eretti muri e sbarramenti tali per cui, di fatto,  queste persone sono rimaste bloccate. Prima di tutto quasi 4 milioni di persone sono rimaste ferme in Turchia, ma poi anche in Grecia, e un po’ tutti i Paesi balcanici fino alla Bosnia, al confine con la Croazia, che in questo momento è il vero confine dell’Unione Europea in questa rotta. Proprio lì ci sono dei respingimenti molto duri e violenti, di fatto è la zona del mondo dove sono stati eretti più sbarramenti al mondo negli ultimi anni, perché queste persone sono bloccate e possono entrare in Europa solo in forma illegale.  Le condizioni in cui sono state ospitate sono spesso estreme, abbiamo visto adesso durante l’inverno soprattutto nel campo profughi di Lipa, al confine tra la Bosnia e la Croazia. Però questo problema è presente in tutte queste nazioni, per esempio in Grecia. C’è da ricordare gli incendi l’estate scorsa a Lesbo.

In tutti questi campi profughi dispersi qua e là lungo la rotta, le condizioni sono davvero disumane. Ecco perché abbiamo lanciato questo grido d’allarme legato poi all’aggravamento della situazione dovuto alla pandemia. I nostri progetti hanno alleviato alcune situazioni, abbiamo fornito legna, indumenti e anche tende e strutture che in alcuni casi sono state anche attrezzate, per esempio, con delle mense per fornire dei pasti regolari. Però il problema di fondo permane e quindi va affrontato in modo più globale e più complessivo.

Un’altra questione è sicuramente quella dei rifugiati Rohingya del Myanmar. Tra l’altro è notizia di ieri, il vasto incendio che ha devastato un campo di profughi Rohingya a Cox’s Bazar, nel Bangladesh sudorientale, in cui sono morte  15 persone, 400 i dispersi. Si tratta del terzo rogo in quattro giorni e colpisce le baracche dove sono ospitati i membri della minoranza musulmana del Myanmar. In che modo siete riusciti allora ad operare in questa situazione così disperata, che vede quasi un milione di Rohingya rifugiati in Bangladesh, in condizioni precarie nei 34 campi presenti nel distretto di Cox’s Bazar?

R – Questa è una delle tragedie umanitarie di cui si parla poco, solo Papa Francesco ha alzato il suo grido anche per loro, perché di fatto anche lì con una maschera etnoreligiosa, il governo locale da molti anni li ha sempre in qualche modo espulsi. La maggior parte di loro si è diretta verso il Bangladesh dove vengono accolti al confine nella zona di Cox’s Bazar e altri sfollati internamente al Myanmar. Le condizioni di vita di queste persone sono al limite della sopravvivenza in condizioni spesso proibitive e quindi con Caritas Bangladesh da anni, sosteniamo interventi, soprattutto di emergenza e di fornitura di generi di prima necessità, ma non si riesce assolutamente di fare un lavoro più profondo, di più di ampio respiro,  di integrazione, ma dobbiamo forzatamente limitarci a portare aiuti umanitari.

E nel webinar si è parlato anche dei sostegni portati dalla Caritas Italiana e Focsiv sia in Bolivia, dove sono stati inviati aiuti in ambito sanitario soprattutto rivolti alle donne e ai bambini in Amazzonia, e sia in Uganda dove sono stati sviluppati progetti in ambito agricolo, per garantire maggior lavoro e sicurezza alimentare alle popolazioni del Paese.