Gabriella Ceraso – Città del Vaticano
A milioni di persone appartenenti ai popoli indigeni che abitano quasi un quarto della superficie terrestre mondiale – custodi e protettori del Creato eppure a rischio più di altri dai cambiamenti climatici e dall’opera di sfruttamento umano della Terra – si rivolgono oggi le parole di Francesco. Il Pontefice in un tweet ripercorre alcuni dei concetti ribaditi nel recente viaggio in Canada il suo “pellegrinaggio penitenziale” proprio presso le popolazioni autoctone che abitano quella immensa terra cui la colonizzazione ha fatto tanto male.
Il tema delle donne e i diritti. Gli appelli di Onu e Ue
L’occasione è la Giornata Mondiale dei Popoli indigeni dedicata in particolare quest’anno dall’Onu, al ruolo delle donne all’interno delle diverse comunità, loro spina dorsale e tasselli fondamentali nella trasmissione e nella conservazione della conoscenza ancestrale tradizionale. “Per costruire un futuro equo e sostenibile – scrive per l’occasione Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite – che non lasci nessuno indietro, occorre amplificare le voci delle donne indigene”. “Ribadiamo – gli fa eco l’alto rappresentante dell’Unione Europea Josep Borrell – il nostro fermo impegno a favore del rispetto, della protezione e dell’esercizio dei diritti dei popoli indigeni sanciti dalla dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni e dal diritto internazionale dei diritti umani”.
E proprio sui concetti di diritto, rispetto, cura e poi anche di riconciliazione e guarigione, rispetto ad un passato e a un presente ancora di colonizzazione, Francesco in Canada ha improntato molti dei suoi discorsi, che si possono estendere a tutte le popolazioni indigene esistenti nel mondo cui questa giornata si rivolge, in quanto segna la prima riunione del Gruppo di lavoro della Nazioni Unite sui popoli indigeni e sui loro diritti, svoltasi nel 1982.
Anche l’Amazzonia, il grande polmone verde del mondo, è abitato e curato, laddove possibile, ancora dalle popolazioni indgene. Con Padre Dario Bossi, comboniano in missione nell’Amazzonia orientale, abbiamo ripercorso alcuni dei punti salienti del magistero di Francesco, riscritto in Canada, e dedicato agli autoctoni che – dice il missionario – “ci provocano ad una conversione radicale, l’unica che può salvare il Pianeta”.
Popoli indigeni: custodi del grande valore dell’armonia, del vivere bene. Così ne ha parlato il Papa alla fine del suo viaggio in Canada e ce ne ha fatto conoscere meglio tanti aspetti. Oggi Giornata che l’Onu dedica a queste popolazioni lei come ne descriverebbe la vita e i valori, il loro tesoro dunque?
Ogni cultura raccoglie immense ricchezze, coltivate a partire dai territori che identificano un popolo e trasmesse di generazione in generazione. Il mondo di oggi, però, si sta trasformando in una immensa “monocultura”, sia dal punto di vista della produzione agricola che della omogeneizzazione delle culture. È assolutamente decisivo riscattare la pluralità e la convivenza delle culture, resistere all’unico modello del consumismo e al suo circolo vizioso, che estrae, vende e scarta materie prime e persone. La cultura dei popoli indigeni è tra le più preziose per noi, perché ci provoca a riscoprire connessioni profonde tra la vita umana e tutto il resto del Creato. Il suo tesoro sta nella visione che non separa gli esseri umani da tutti gli altri esseri, animati e inanimati, con cui ci relazioniamo. Qui in Amazzonia diciamo che sono questi popoli che conservano la più sofisticata tecnologia, quella che da millenni permette una convivenza integrata e non distruttrice tra le comunità umane e la foresta. Al contrario, la nostra tecnologia, considerata di punta, sta scavando la tomba della vita, saccheggiando i territori e sterminando la biodiversità.I popoli indigeni, con la loro mistica profonda e percezione della presenza viva di Dio nelle relazioni tra tutti gli esseri creati, ci provocano a una conversione radicale, l’unica che può salvare il Pianeta.
Anche oggi – ha detto il Papa durante il pellegrinaggio penitenziale in Canada – esiste il colonialismo, una colonizzazione ideologica che tenta di soffocare il naturale attaccamento a valori dei popoli indigeni. Si può dire anche dell’Amazzonia? Quali i pericoli oggi e come evitarli?
Quando preparavamo il Sinodo dell’Amazzonia, nel lungo e capillare esercizio di ascolto delle comunità, è stato forte il richiamo alla “decolonizzazione della fede”. La gente lo diceva in tanti modi, chiedendo che la presenza della Chiesa fosse soprattutto di ascolto, di rispetto, di profonda e paziente inculturazione, dando priorità al grido dei popoli e della Terra e avvicinandosi alle comunità come ha fatto il Signore nell’Esodo, che è sceso per camminare assieme al suo popolo, e come ha fatto Gesù, che si è incarnato in una cultura e ne ha percorso le luci e le ombre pazientemente. Invece, ancora oggi, spesso identifichiamo l’Evangelizzazione con la “plantatio Ecclesiae”, una Chiesa dal volto occidentale, nei suoi riti, strutture e protagonisti. Ripensare la Chiesa con un volto amazzonico significa rivedere la formazione sacerdotale e religiosa, scommettere sulle persone laiche che respirano e vivono la profondità e il mistero della cultura e della mistica di queste terre e acque. La colonizzazione ideologica è spesso collegata a interessi politici ed economici, perché fa strada ad altre forme di conquista dell’Amazzonia. La Chiesa, invece di difendere la vita delle piccole comunità e della foresta, può essere complice di chi distrugge e saccheggia, benedire grandi progetti di morte e di monocultura, allearsi a scelte politiche che discriminano i popoli indigeni e divengono responsabili di genocidio e ecocidio. Occorre vigilare molto su questo pericolo. Recentemente, al Forum Sociale Panamazzonico (FOSPA) celebrato a Belém, porta dell’Amazzonia orientale, una forte presenza interreligiosa e della Rete Ecclesiale Panamazzonica (REPAM) hanno denunciato la connivenza dei fondamentalismi religiosi con la morte della foresta, delle culture e dei popoli amazzonici.
Il volto della Chiesa oggi tra i popoli indigeni: le domande dei missionari sulla propria testimonianza e sulle modalità dell’annuncio.Si riesce ad essere Chiesa “casa di riconciliazione”?
Riconciliazione, riparazione e rigenerazione sono parole chiave per la presenza della Chiesa in Amazzonia e, più ampiamente, tra i popoli indigeni. La Cura del Creato, della Casa comune, è missione di questa Chiesa Samaritana, che unge con l’olio dell’alleanza, della presenza, del rispetto e della denuncia profetica le ferite della Terra e dei corpi minacciati e contusi dei piccoli, che difendono i loro territori. Abbiamo esperienze molto belle, in Amazzonia, di una Chiesa a servizio della vita. Penso al Consiglio Indigenista Missionario (CIMI), che da 50 anni difende la causa dei popoli indigeni e mostra loro il volto di un Dio di compassione e giustizia. Penso all’evangelizzazione dei missionari in Roraima, che con un cammino paziente hanno costruito comunità cristiane indigene, nel profondo rispetto della loro cultura, e hanno contribuito alla formazione di leader che ora assumono il protagonismo nella vita di fede e nelle grandi scelte sociopolitiche. Penso alle Piccole Sorelle di Gesù e a sr. Genoveva, 60 anni di evangelizzazione silenziosa e profondamente inserita nel popolo Tapirapé dell’Araguaia. E non possiamo dimenticare la testimonianza di grandi profeti, come dom Pedro Casaldáliga, che ci ha mostrato che non esiste riconciliazione per i popoli indigeni senza il loro diritto alla terra. E i tanti martiri, come padre Ezechiele Ramin, “amigo do peito” (cuore a cuore) dei popoli indigeni in Rondônia, ucciso per l’opzione della Chiesa locale a servizio della giustizia.
Inizia a Quito oggi il Conto alla rovescia 80×25, per contare i giorni che mancano al raggiungimento dell’obiettivo globale di proteggere l’80% dell’Amazzonia entro il 2025. Che appello si sente di lanciare anche a nome dei popoli indigeni?
Veramente ci troviamo al limite, di fronte al punto di non ritorno per l’Amazzonia. Se la soglia del 20% di deforestazione viene superata, entreremo in un circolo vizioso di irrefrenabile desertificazione di questo bioma. Il Forum Sociale Panamazzonico ha dichiarato l’emergenza climatica per l’Amazzonia, e dall’Amazzonia per il mondo. I popoli indigeni e le popolazioni tradizionali sono i custodi della foresta viva e dimostrano che il loro diritto alla terra e all’autodeterminazione nei loro territori garantisce la preservazione degli ecosistemi e della biodiversità. In Brasile, per esempio, la resistenza indigena è oggi il movimento più organizzato e forte della società civile, rivendicando i diritti umani e della natura e denunciando un modello economico-politico miope e autoreferenziale, di deliberata distruzione dell’Amazzonia. Appoggiare i popoli indigeni oggi non può essere una questione di solidarietà folkloristica, ma dev’essere una opzione in difesa del loro diritto alla terra e alla vita. È il modo più efficace per proteggere l’Amazzonia e l’intero Pianeta.