Può far pensare alle vie colonnate di epoca antica, o all’attitudine barocca della decorazione fastosa, quella degli angeli lungo gli spalti del ponte a Roma. Invece le ragioni affondano, come sempre, in motivi più profondi e sacri. Le dieci statue ricordano ciascuno un oggetto della Passione di Cristo. Si tratta di un luogo dedicato alla Quaresima come incarnazione del suo significato di passaggio, di cammino verso la Pasqua di Risurrezione
Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano
Le statue degli angeli di Ponte Sant’Angelo non sono una semplice decorazione, l’eco dei fastigi imperiali di vie colonnate e percorsi trionfali. Questi angeli di pietra ci accompagnano nella traversata del Tevere in ricordo di un avvenimento memorabile. Il giorno in cui scesero sulla terra schiere alate, planando intorno alla preziosa icona della Vergine proveniente dalla basilica di Santa Maria Maggiore, la Salus Populi Romani, portata in processione per far cessare la peste.
L’origine del regina Coeli, tra gli angeli e lo sguardo di Maria
Papa Gregorio pregava per la fine dell’epidemia che aveva messo in ginocchio l’intera città, causando migliaia di vittime. Era il 590. Aveva organizzato una processione settiforme verso San Pietro, e procedeva alla guida con la sacra icona mariana e tutto il popolo a seguire.
Giunti al mausoleo di Adriano, allora denominato Castellum Crescentii, unico collegamento in quel punto tra le due sponde del Tevere, l’aria divenne un unico turbinio di angeli: “Regina Coeli, laetare, Alleluja – Quia quem meruisti portare, Alleluja – Resurrexit sicut dixit, Alleluja!”, cantavano. “Ora pro nobis rogamus, Alleluja!”, rispose San Gregorio. Queste sono proprio le parole del Regina Coeli, che da allora si recitano al posto dell’Angelus in tempo pasquale e salutano Maria Regina in segno di gioia per la Risurrezione del Figlio. L’origine dell’antifona nasce proprio in questo luogo e ha radici angeliche.
San Michele arcangelo e gli angeli intorno
La storia è nota: con l’intervento dell’arcangelo Michele, che apparve e rinfoderò la sua spada, la peste cessò. Da allora, il luogo è stato dedicato alle creature celesti. Sul mausoleo, che mutò per questo motivo il suo nome in Castel Sant’Angelo, fu posta la statua del principe degli angeli.
Una prima effige, risalente all’epoca di Paolo III, è del 1544 e opera di Raffaello da Montelupo, in marmo e rame, alta poco più di 3 metri e restaurata dal Bernini nel 1660. Successivamente fu sostituita da quella che oggi vediamo sul colmo del mausoleo anche da molto lontano, nella sua sagoma inconfondibile, opera dello scultore fiammingo Peter Anton Verschaffelt, che vinse il concorso indetto da Papa Benedetto XIV Lambertini in occasione del Giubileo del 1750, e inaugurata due anni dopo, nel 1752.
Il ponte in origine
La struttura del ponte, come la vediamo oggi, è il risultato di rifacimenti secolari. All’inizio fu fatto costruire dall’imperatore Adriano per collegare quello che aveva progettato fosse il suo mausoleo, il suo sepolcro dinastico, enorme e ricchissimo, inaugurato nel 134 d.C. Anche il suo nome era una celebrazione del suo costruttore, si chiamava infatti pons Aelius o Hadriani.
Non aveva tanto una funzionalità di passaggio quanto la dimostrazione del potere imperiale. Tuttavia l’importanza sempre maggiore assunta dall’area sulla riva sinistra del Tevere, grazie all’attrazione esercitata dai luoghi dove era stato crocifisso l’apostolo Pietro e quindi dalla basilica a lui dedicata, divenne nel tempo punto nevralgico della viabilità. Nel Medioevo, infatti, si trovava lungo il percorso compiuto dai pellegrini diretti alla tomba di Pietro. Così, di conseguenza, prese il nome di pons Sancti Petri. Un percorso molto affollato, soprattutto durante i giubilei, come quello del 1450 che costò la vita di molti pellegrini precipitati nel fiume a causa del crollo delle spallette, cedute a causa della calca di gente che si avvicendeva sul ponte. All’imbocco del ponte vi erano due cappelle che in seguito, nel 1527, furono abbattute e sostituite, nel 1535, dalle due statue di Pietro e Paolo.
La mano del Bernini
Nel 1669, papa Clemente IX fece sostituire e realizzare un nuovo parapetto, progettato dal principale protagonista della scena artistica romana del XVII secolo: Giovan Lorenzo Bernini.
Sulle balaustre furono poste dieci statue, cinque per lato, raffiguranti angeli che recano gli strumenti della Passione. la direzione dei lavori fu sempre affidata al Bernini ma la realizzazione si deve agli allievi, tranne due scolpite dallo stesso artista: l’angelo con il cartiglio e quello con la corona di spine, che ora si trovano nella basilica di Sant’Andrea delle Fratte, mentre sul ponte ci sono due copie. Su ogni sostegno, su cui insistono le statue, ci sono brevi versetti tratti dall’Antico e Nuovo Testamento che aiutanto nella comprensione dell’oggetto portato dalle creature alate.
Mentre l’Angelo con la colonna della flagellazione riproduce perfettamente quella conservata nella basilica di Santa Prassede, il cartiglio è invece rappresentato con la sigla contratta, alla maniera “antica”, “INRI”. Il Bernini non si ispirò al cartiglio scoperto nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme con l’iscrizione sulla croce di Cristo, nelle tre lingue ebraico, greco e latino, come raccontato nei Vangeli.
Il ritrovamento del Titulus Crucis fece infatti grande scalpore e da quel momento fu raffigurato abbastanza fedelmente da artisti a partire da Luca Signorelli e Michelangelo. Ma è del tutto evidente che trasferire su una scultura iscrizioni così minute e difficilmente leggibili da lontano avrebbe avuto una resa senz’altro meno efficace.