Intervista con Elisabeth Bruyère che interviene al convegno in corso presso la Gregoriana su “La diplomazia vaticana e la formazione dell’Occidente sotto il pontificato di Pio XII”, focus sulle relazioni tra Africa e Santa Sede: da allora il rapporto di evangelizzazione è cambiato, adesso i missionari vengono dall’Africa verso il Belgio e la Francia
Stanislas Kambashi – Città del Vaticano
“La diplomazia vaticana e la formazione dell’Occidente sotto il pontificato di Pio XII”, è il tema della conferenza internazionale che si tiene oggi e domani, 18 e 19 aprile, presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma. Numerosi gli argomenti al centro delle riflessioni, tra questi “Le nuove relazioni tra la Santa Sede e l’Africa”. Sarà presentato da Elisabeth Bruyère, che ha conseguito un dottorato in legge presso l’Università di Gand in Belgio ed è ricercatrice di storia contemporanea. Si interessa in particolare di diplomazia vaticana nello spazio coloniale belga e di modelli politici, sistemi e regimi nello spazio coloniale belga.
In che modo la “diplomazia vaticana e la formazione dell’Occidente sotto il pontificato di Pio XII” ha influito sul continente africano? Come valutare l’impatto durante questo periodo?
Mentre i territori africani spesso non avevano alcuna rappresentanza o status nell’ordinamento giuridico internazionale, poiché dipendevano dai vari imperi coloniali, il Vaticano inviò un numero crescente di rappresentanti pontifici – di solito delegati apostolici – in ogni angolo del continente africano, ad esempio nel 1922 in Sudafrica, poi al Cairo dal 1927, a Mombasa e Leopoldville nel 1930; infine anche ad Addis Abeba e a Dakar. Questi rappresentanti avevano il compito di aumentare il controllo della Santa Sede sulle missioni, quindi si assicuravano della neutralità e della disciplina dei missionari e ufficiosamente negoziavano anche con le autorità coloniali. L’obiettivo era quello di dissociare i missionari dalle ambizioni coloniali, ma non era un compito facile.
Al contrario, in che modo l’Africa ha influenzato la diplomazia vaticana sotto il pontificato di Papa Pacelli?
I diplomatici in terra africana erano in contatto con le popolazioni locali, ma soprattutto con il clero locale e penso che il clero africano abbia avuto un grande impatto sull’apertura della Santa Sede. Fino ad allora gli ambienti curiali potevano contare solo sulle testimonianze dei missionari. I preti africani, in particolare, hanno potuto esporre il loro punto di vista su diverse questioni. Le rimostranze sono state essenziali nell’evoluzione del loro status: ad esempio, il fatto di avere il medesimo status del personale missionario europeo; di fronte a ciò, il delegato apostolico cercò di prendere provvedimenti per far sì che i due cleri – missionari europei e sacerdoti africani – lavorassero fianco a fianco, piuttosto che faccia a faccia, perché a volte c’erano conflitti, non era sempre facile il rapporto tra il clero regolare missionario e il clero nascente locale africano pre-diocesano, secolare.
Il pontificato di Pio XII si svolse durante il periodo coloniale, per la maggior parte dei Paesi africani. Si può individuare un legame tra la Chiesa locale, la diplomazia vaticana e la colonizzazione?
Ovviamente, come potrà aspettarsi, è una questione molto complessa, sulla quale in futuro si potranno ancora scrivere libri e libri: per questo ci sono gli archivi che ci possono aiutare per capire questo periodo e questi legami specifici tra la Chiesa locale, la diplomazia vaticana e il potere coloniale. La diplomazia vaticana, dunque, in generale è una diplomazia di compromesso, di neutralità: i suoi impegni non sono politici, non hanno altro obiettivo che – come si diceva – la salute delle anime. L’espansione del Cristianesimo nei territori coloniali o di missione è alla base di tutte le misure adottate. In altre parole, tutte le direttive hanno per obiettivo l’evangelizzazione. Poiché la Santa Sede sapeva da molto tempo che la religione doveva essere inculturata in ogni Paese, ha cercato di adattare la Chiesa alle situazioni locali, ma si è trattato di una sfida difficile quando la maggior parte dei missionari proveniva dal Paese colonizzatore. Tuttavia, gli interessi dei missionari e quelli delle potenze coloniali non erano gli stessi, anche se per molti aspetti erano simili.
C’erano figure africane emergenti coinvolte nella diplomazia vaticana in quel periodo? Quale fu il loro contributo?
In generale la stragrande maggioranza dei diplomatici vaticani è stato italiano o, al massimo, europeo; tuttavia possiamo parlare del caso di monsignor Kidane Maryam che fu vicario dei fedeli di rito ghe’ez in Eritrea e che, con l’espulsione degli italiani da parte dei britannici e degli etiopici nel 1941-42 divenne reggente della delegazione apostolica ad Addis Abeba. È stato, quindi, il primo rappresentante papale di colore. In ogni caso, va sottolineato che, se la presenza di rappresentanti africani rimane molto esigua, i sacerdoti e i laici bianchi e i religiosi locali non esitavano a scrivere a Roma per far conoscere le loro rimostranze.
Alla luce di quanto detto finora, quali sono le “nuove relazioni” tra Africa e Santa Sede?
Penso che adesso il clero africano e la Chiesa africana in generale siano diventati attori di maggior importanza nelle reti ecclesiastiche e nella diplomazia pontificia, ma sono anche attori essenziali per i Paesi europei e per i tanti Paesi occidentali dove arrivano tanti preti africani. Ad esempio da noi, sia nelle diocesi francesi che nelle diocesi belghe, troviamo soprattutto preti camerunensi e congolesi che vengono ad aiutare, ma provenienti anche da altri Paesi. Il rapporto di evangelizzazione è cambiato: adesso i missionari vengono dall’Africa verso il Belgio e la Francia, ad esempio.