L’Osservatore Romano
Spesso il clero diocesano viene utilizzato al solo scopo di rispondere alle necessità delle Chiese particolari. In questo modo, un sacerdote «esercita il suo ministero cercando di soddisfare i bisogni del momento, i più urgenti». Ma questa prospettiva ecclesiale, che non tiene conto dei carismi individuali, «corre il rischio di consumare la vita di quel sacerdote nella generosa dedizione a ciò che gli viene chiesto, impedendogli di realizzare e vivere ciò per cui il Signore lo ha chiamato concedendogli quella particolare grazia». Con questa riflessione sull’identità e la missione sacerdotale l’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali, si è rivolto ai membri della Conferenza episcopale dell’Ecuador, incontrati nella mattina di martedì 26 aprile a Quito.
Partito da Roma domenica 24, il presule è nel Paese latinoamericano fino a giovedì 28, come annunciato dall’account twitter della Segreteria di Stato @TerzaLoggia. Dopo l’incontro con il Presidente della Repubblica dell’Ecuador, Guillermo Lasso, tra i primi momenti ufficiali della visita — che si svolge in occasione dell’inaugurazione della ristrutturata sede della nunziatura apostolica — è stato l’incontro con i pastori ecuadoregni, guidati da Luis Gerardo Cabrera Herrera, arcivescovo di Guayaquil, e Alfredo José Espinoza Mateus, arcivescovo di Quito, rispettivamente presidente e vicepresidente della Conferenza episcopale.
Precisando le coordinate del ministero sacerdotale, monsignor Peña Parra ha esortato a invertire la prospettiva talvolta dominante: «Non sono le emergenze pastorali a decidere il destino di un prete, ma è il carisma di un prete che ispira le decisioni che una Chiesa deve prendere». In questo modo, ha detto, «siamo inevitabilmente chiamati a ripensare la nostra vita ecclesiale, lavorando in modo che sia guidata e sostenuta soprattutto da persone che, essendo sempre più se stesse, possano sentirsi felici nella loro missione». Ed è proprio «la felicità nel ministero il primo ingrediente di ogni evangelizzazione».
Un prete che compie il suo dovere, ma non è felice, è un contro-testimone. «Si dovrebbe pensare molto di più — ha esortato il presule — a ciò che può rendere felice una persona che ci è stata affidata, cioè dovremmo chiederci cosa sta facendo quella persona, cosa la rende pienamente se stessa, cosa può aiutarla ad esprimere il dono che il Signore le ha fatto». Un «cambio di prospettiva» che secondo il sostituto va intrapreso con «urgenza» in quanto «può essere anche un importante antidoto alle terribili esperienze di controtestimonianze, abusi e scandali che nascono all’interno della Chiesa, in gran parte a causa dell’infelicità delle persone coinvolte». In effetti, «alla radice di molti casi di abuso e di scandalo c’è la frustrazione, che si è accumulata nel tempo». Come Chiesa è possibile prevenire tutto questo, «non solo investendo di più e meglio nella formazione ma anche preoccupandoci di rispondere alla domanda: abbiamo dato alle persone che ci sono state affidate le condizioni per essere felici?». Del resto, una logica aziendale «non può essere sempre utile in una logica ecclesiale. L’efficienza — ha affermato — non corrisponde sempre ai moti dello Spirito».
Monsignor Peña Parra ha poi offerto una riflessione sul fatto che la Chiesa non esiste principalmente «per risolvere i problemi» ma per essere un prolungamento della misericordia di Dio, della sua paternità, della sua maternità. «Come sarebbe bello — ha commentato — se, pensando alla Chiesa, pensassimo soprattutto a questo duplice aspetto, quello della paternità che si manifesta nella misericordia e quello della maternità generativa che ha in Maria la sua icona più preziosa e più efficace»: Lei è certamente «l’immagine di come dovrebbe essere la Chiesa».
Negli ultimi anni, ha aggiunto l’arcivescovo, Papa Francesco «ci ha abituato a pensare al nostro ruolo in un rapporto sempre più stretto con il popolo di Dio». Al Pontefice piace ripetere che il vero pastore è colui che «sa vivere in mezzo al suo popolo». E proprio da questa immagine il sostituto è partito per offrire la sua riflessione. Esiste infatti il rischio di vivere tra la gente in maniera superficiale, abitudinaria, non riuscendo ad abitare la realtà «senza lasciarsi condizionare dalle ideologie dominanti» e da quello «spirito mondano contro il quale Gesù ha così spesso combattuto nella predicazione del Vangelo». Un rischio che riguarda anche la Chiesa, quando «rimane lontana dalla realtà» o resta «comoda negli spazi che ha conquistato nel tempo».
Del resto, il mondo tende a guardare la realtà classificandola nei suoi schemi. «La logica dell’incarnazione, invece — ha ricordato il presule — parte sempre dalla realtà, cioè si lascia evangelizzare prima di tutto dai fatti così come sono». E così anche «noi, come Chiesa, possiamo dire che viviamo tra la gente se siamo capaci di lasciarci evangelizzare dalla realtà stessa, cioè se facciamo nostre le parole che leggiamo nella Gaudium et spes». In questo senso, ha fatto notare l’arcivescovo, il primo atteggiamento di un pastore è proprio quello «di saper guardare e saper ascoltare». Lo sguardo e l’ascolto devono sempre precedere il parlare, ha avvertito l’arcivescovo ricordando il passo dell’Evangelii gaudium in cui Papa Francesco chiede di «praticare l’arte dell’ascolto, che è più che sentire», nel comunicare con gli altri, ma anche di valorizzare l’ascolto che «aiuta a trovare il giusto gesto e la giusta parola che ci toglie dalla tranquilla condizione di spettatori».
Per questo, il sostituto ha sottolineato che lo sguardo e l’ascolto devono «essere il fondamento della nostra proclamazione, altrimenti ciò che diciamo potrebbe non riuscire a cogliere la realtà così com’è». D’altra parte, è lo stesso Gesù che ha insegnato questo metodo: «Quando parlava ai pescatori, usava la loro immaginazione, parlava del mare, dei pesci, delle reti»; e sapeva anche usare «immagini e costumi che riuscivano a trasmettere il messaggio del regno di Dio quando parlava ai pastori o alle donne del villaggio». Questa è in fondo «la straordinaria ricchezza della sua vita nascosta per trent’anni a Nazareth, che non dobbiamo mai dimenticare».
Durante quegli anni, ha osservato l’arcivescovo facendo riferimento al volume Vita di Gesù di Luigi Santucci, il Signore «osservò la vita degli uomini, ascoltò il rumore del mare e del vento, imparò, molto semplicemente, la vita». Per questo, quando «predicava sapeva parlare alla gente, raggiungendo la loro vita concreta e toccando le profondità del loro essere».
Questa capacità di «saper abitare la realtà per assumerla nel linguaggio è il vero fondamento di ogni evangelizzazione». E anche «noi, in questo momento, facciamo parte della storia e siamo chiamati a comprendere il suo immaginario per poter annunciare la buona notizia del Vangelo che non cambia». A questo proposito, per usare una metafora del Vangelo, si può dire che «il lievito ha senso solo quando viene messo nella pasta, perché solo entrando dentro può farla crescere»; al contrario, il lievito che viene «rimosso e rimane fuori dalla realtà mantiene il suo potenziale benefico, ma corre il rischio di non agire mai su di essa».
Il Papa ricorda costantemente che «non dobbiamo mai coltivare un’immagine di Chiesa e un’esperienza di fede che si accontenti di spazi riservati o, peggio, privilegiati». Il sostituto ha poi invitato a riflettere sulla relazione tra vescovo e sacerdoti, scegliendo come spunto una frase molto illuminante di sant’Ambrogio: Ubi episcopus, ibi ecclesia , “Dove è il vescovo, lì è la Chiesa”. Parole che non sono da intendere nel senso che il vescovo «esaurisca in sé l’intera esperienza ecclesiale», in quanto egli non coincide con la totalità della Chiesa, ma la rende tale. Dove c’è il vescovo, infatti, «c’è quell’attrazione che costruisce la comunione e la rende possibile». In questo senso, il ministero episcopale «non può mai essere un ministero di autosufficienza che non tiene conto degli altri carismi e doni che il Signore ha dato al santo popolo di Dio». E non si tratta solo di «semplici relazioni umane, ma di un fatto teologico: il vescovo è tale nella misura in cui è intimamente unito ai suoi sacerdoti e a tutto il popolo di Dio che serve».
Ciò vale soprattutto per i sacerdoti e i diaconi, che «sono i primi collaboratori del vescovo»: essi non possono «essere pensati come semplici esecutori di istruzioni date loro dall’alto», ma contribuiscono alla gioia del popolo, rendendo possibile al vescovo «di essere pienamente pastore, perché senza sacerdoti sarebbe un pastore a cui mancano le mani», necessarie per poter «indicare, sostenere, guidare, difendere e consolare il santo popolo di Dio».
Il presule ha ricordato al riguardo una recente riflessione di Papa Francesco sulla figura dei sacerdoti; e da questa ha tratto una lezione valida anche per il ministero episcopale. A proposito della vicinanza del vescovo, il Pontefice sottolinea che «l’obbedienza non è un attributo disciplinare ma la caratteristica più forte dei legami che ci uniscono nella comunione». Soprattutto è importante recuperare la «identità paterna e non paternalistica della figura del vescovo». La paternità infatti, come insegna il Papa, «non nasce semplicemente dal posto che occupa all’interno della Chiesa, ma è un’autorità che si guadagna sul terreno, un’autorità che nasce dal basso». Quando un vescovo «non è un padre, diventa inevitabilmente un mero amministratore, un manager, e tutto questo trasforma l’esperienza ecclesiale» in una realtà meramente umana che non si preoccupa più della «santificazione» e della «trasmissione del Vangelo», ma solo della «gestione di problemi più o meno importanti».
Monsignor Peña Parra ha poi offerto alcune riflessioni sulla relazione tra vescovo e popolo di Dio, dicendosi convinto che «un buon servizio per la crescita dei laici consista nel pensare itinerari formativi in grado di dare alle nostre persone le categorie adeguate che le aiutino concretamente a passare da semplici beneficiari a protagonisti della missione evangelizzatrice».
Per l’inaugurazione della nunziatura apostolica
Cultura del dialogo e dell’incontro
Pubblichiamo in una traduzione dallo spagnolo il discorso pronunciato dall’arcivescovo Peña Parra durante la cerimonia di inaugurazione della ristrutturata sede della nunziatura apostolica a Quito, svoltasi nella mattina di martedì 26 aprile, alla presenza, tra gli altri, del presidente della Repubblica, Guillermo Lasso Mendoza.
Ringrazio per la presenza di tutti voi a questo importante atto di benedizione della nunziatura apostolica, dopo aver concluso i lavori di restauro. Questo momento ci offre l’occasione per pensare alle parole iniziali del Salmo 127: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori». In verità è il Signore a ispirare le nostre azioni, ad accompagnarle e a far sì che giungano a termine. Non si riferisce solo alle azioni spirituali, ma anche al nostro povero lavoro materiale, perché nessuna delle nostre realtà è estranea al Signore, né resta al di fuori del suo sguardo provvidente. Come figli e figlie del Padre celeste, tutto il nostro essere, il nostro agire e il nostro procedere hanno il loro inizio in Lui e raggiungono la loro perfezione soltanto in Lui.
Questa inaugurazione mi offre l’opportunità di porgere, a nome del Santo Padre, un saluto cordiale e di esprimere la sua gratitudine alle autorità civili qui presenti, ai membri del corpo diplomatico, al nunzio apostolico, alla Conferenza episcopale e, in particolare, a quanti hanno lavorato con impegno a questa opera, ai benefattori e a tutte le persone che ne hanno reso possibile la realizzazione.
Ricostruire la casa del Papa in Ecuador significa porre in rilievo il privilegio e il dovere di custodire e di conservare ciò che abbiamo ereditato dalla generazioni precedenti per tramandarlo al futuro. Ereditiamo un edificio, questa nunziatura, la cui missione è di coltivare e far crescere le buone relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Repubblica dell’Ecuador, e anche di rendere la persona del Santo Padre visibile e vicina alla Chiesa locale. Ma ereditiamo anche l’alta vocazione di proteggere, nel rinnovato spazio di questa sede diplomatica, la cultura del dialogo e dell’incontro, come pure la ricerca instancabile del bene comune e della pace. Perciò, prima d’implorare la benedizione di Dio su questa opera materiale e sulla sua delicata missione, guardando al futuro, desidero riaffermare dinanzi alle autorità civili qui presenti il nostro impegno a continuare a rafforzare le relazioni diplomatiche, affinché possiamo rispondere insieme alle grandi sfide che l’attuale scenario internazionale ci presenta. Il cammino lo ha indicato profeticamente Papa Francesco nel suo primo discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, pochi giorni dopo la sua elezione, invitando il coro delle nazioni a lottare contro la povertà, sia materiale sia spirituale; a edificare la pace e a non stancarci di costruire ponti attraverso il dialogo (cfr. Udienza al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede , 22 marzo 2013).
Siamo felici della benedizione che stiamo realizzando ora, e con la felicità che questo evento suscita nei nostri cuori auspichiamo che, allo stesso modo, altri edifici della Chiesa in questa amata nazione, in particolare templi e conventi storici, possano essere oggetto di questo tipo di restauro e conservazione, e servano a far sì che l’intera società veda in essi un riflesso della bellezza splendente di Cristo Risorto.