Luca Collodi – Città del Vaticano
In pandemia, le nostre vite “sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie, che senza dubbio hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa”. È l’indicazione data dal segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, durante l’omelia della messa di chiusura del Festival della Dottrina sociale, nel Duomo di Verona, dal tema “Audaci nella speranza. Creativi con coraggio”
Il porporato ha citato Papa Francesco e l’enciclica Fratelli tutti per ricordare che “la recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che nella paura hanno reagito donando la propria vita”, come medici, infermieri e infermiere, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose. “Abbiamo capito – ha aggiunto Parolin – che nessuno si salva da solo”.
Vatican News, con Tv2000 e Telepace, ha intervistato Il cardinale Pietro Parolin al termine del Festival:
Eminenza, lei viene a chiudere questo Festival della Dottrina Sociale che ha lavorato per quattro giorni intorno a tre parole: speranza, creatività e coraggio. Cosa vuol dire infondere speranza oggi?
Credo che oggi ci sia molta necessità di essere capaci di infondere speranza, ma di farlo in una maniera abbastanza concreta, non soltanto con degli appelli generici alla speranza, che lasciano un po’ il tempo che trovano, ma dare piste concrete, operative, in cui si possano realizzare cammini e sentieri di speranza. E io credo che, in questo senso, anche riferendomi al tema del Festival della Dottrina Sociale, la dottrina sociale può essere uno di questi, anzi deve essere uno di questi sentieri, proprio perché dà delle piste di riflessione, ma anche dei criteri di giudizio, delle indicazioni e delle direttrici operative su cui muoversi nei grandi campi che interessano un po’ tutti. Certo, i credenti si rifanno alla Dottrina Sociale della Chiesa, ma penso che abbia un interesse anche per i non credenti, perché quando parliamo di temi come la pace, il lavoro, lo sviluppo, la vita civile, la vita comune, la politica… io credo che sono ambiti che interessano tutti. Quindi, credo, che la Dottrina Sociale della Chiesa sia un ambito di speranza dove si possono davvero costruire e indicare percorsi di speranza nel mondo di oggi.
Cardinale Parolin, siamo in tempo di Avvento, ancora però in tempo di pandemia. Come vivere questo periodo?
Vivere con la responsabilità di chi sa che la soluzione di questo tragico problema, che ancora continua, dipende certamente dalle forze degli uomini, quindi dagli sforzi che fanno gli uomini. In questo senso, credo che ci deve essere un impegno costante, una responsabilità costante, per quanto riguarda il vaccino, e anche una ricerca delle cure. Credo che è importante che si vada avanti e si prosegua proprio per cercare di trovare le cure più adatte. Nello stesso tempo, il Tempo di Avvento è proprio il tempo che ci richiama a questo incontro con il Signore, quell’apertura, sapendo che i nostri sforzi non possono essere fecondati se non per la grazia del Signore. Quindi, aprirci sempre di più a Lui e alla sua venuta, alla sua grazia e alla sua potenza. Quindi sempre questa doppia direzione: lo sforzo dell’uomo, che non può mai mancare ma, nello stesso tempo, anche l’affidarsi alla grazia del Signore.
Sempre più dibattuto in Italia il tema dell’eutanasia. Come i cristiani possono creare una rete di apertura verso le fragilità, le persone più vulnerabili?
Oggi viviamo evidentemente in una società che è sempre più scristianizzata, dove il riferimento al valore infinito della vita viene sempre meno, anche a questa apertura al trascendente, che per noi cristiani è fondamentale, proprio nell’affrontare anche queste tematiche. Io credo che i cristiani, naturalmente, debbano insistere su quella che è la visione antropologica della fede, che viene dal Vangelo, che è condizione della salvaguardia della dignità di ogni persona, perché se noi difendiamo questi valori non è tanto per il gusto di difenderli in sé stessi, ma perché siamo convinti che siano condizione indispensabile per difendere, promuovere, tutelare e sviluppare la dignità concreta di ogni persona. Io insisto su questo: non la persona astratta, ma una persona concreta. Però, io credo che debba essere soprattutto attraverso l’esempio. Mi venivano in mente queste due linee che ci sono state date da San Giovanni Paolo II nella Salvifici Doloris, quando dice: “Fare del bene attraverso la sofferenza”. Io la intendo soprattutto nel senso di vivere la sofferenza, anche le sofferenze estreme, come possono essere quelle di chi decide di porre un fine alla sua vita, danno un senso a tutto questo. Cioè, se non c’è un senso, la sofferenza è incomprensibile, la sofferenza diventa insopportabile, e credo che noi cristiani siamo chiamati a dare proprio questo senso, uniti naturalmente al Mistero della passione, morte e risurrezione del Signore, a fare del bene a chi soffre. Ecco, queste sono le due direzioni secondo le quali dobbiamo muoverci, per tentare di dare una risposta a queste grandi problematiche di oggi che ci preoccupano in maniera molto forte.
Verona è una delle città che fanno da sfondo alle proteste dei No Pass e dei No Vax. Ieri ha spiccato la presenza di un sacerdote arrivato da Belluno che ha benedetto la folla prima della marcia. Qual è il messaggio della Chiesa per i suoi sacerdoti?
Mi pare che il messaggio sia chiaro ed è ben conosciuto, non c’è bisogno di ripeterlo, è quello che ha sempre affermato il Santo Padre. Io mi richiamo alle sue dichiarazioni, alle sue esortazioni, a vivere anche la realtà e la problematica del vaccino, nel senso della responsabilità. Io credo che è questo: una libertà responsabile. Perché molti si richiamano alla libertà, ma la libertà senza responsabilità è vuota, anzi diventa una schiavitù. Quindi, responsabilità verso sé stessi, perché vediamo come i No Vax vengono colpiti dalla malattia, e responsabilità soprattutto verso gli altri, che poi il Papa ha riassunto con questa bellissima espressione che a me piace tanto ma che, in fin dei conti, va in questo senso, dell’atto di amore.
Nella Liturgia di oggi ci sono parole di grande speranza: levate il capo, risollevatevi. Lei personalmente, come vede il futuro della Chiesa in questo contesto, in questo tempo e anche in questa dimensione in cui ci ha proiettato Papa Francesco, attraverso l’edizione di questo Sinodo che coinvolge la Chiesa universale, partendo dalla base, i vescovi, le chiese locali, le comunità, le parrocchie, i gruppi, le associazioni?
Mi viene in mente quello che diceva Pio IX quando gli dissero: “Siamo molto preoccupati per la nave della Chiesa”, e allora lui disse: “Io non sono preoccupato per la nave, sono preoccupato per l’equipaggio”, nel senso che ci sono tanti elementi di preoccupazione oggi, non stiamo qui a elencarli uno dopo l’altro, ma ci sono. Personalmente, anche io mi sento, a volte, un po’ in ansia di fronte alla situazione in cui si trova la Chiesa. Però credo che, da parte del magistero, soprattutto del magistero del Papa, ci sono anche delle indicazioni molto precise, molto determinate, proprio per non rimanere prigionieri, o addirittura vittime, di questo clima di poca speranza, di scoraggiamento, ma per riprendere in mano la situazione, sempre in quella dinamica di cui parlavo prima: grazia di Dio e sforzo dell’uomo e andare avanti. Io credo che questo coinvolgimento di tutta la Chiesa, soprattutto nel senso dell’ascolto, della corresponsabilità e della partecipazione alla sua missione, possa essere una indicazione molto ben precisa per affrontare il tempo presente e per dare speranza anche alle nostre situazioni. Poi il Papa ci ha ricordato anche la “Fratelli Tutti”, credo che anche quella sia un’altra indicazione fondamentale, più a livello di società, più in generale, come una delle piste fondamentali per uscire da questa crisi nella quale ci troviamo. E io mi auguro che tutti si sentano coinvolti in questo cammino e che ognuno possa portare il proprio contributo, a partire dal fatto che siamo convinti che ciascuno abbia qualcosa da dire, qualcosa di importante da dare.