Parkinson, no allo stigma

Vatican News

Eliana Astorri – Città del Vaticano

Nella malattia di Parkinson – in Italia sono 230mila le persone che ne sono affette – si verifica una diminuzione di dopamina, un neurotrasmettitore che regola l’attività motoria, cognitiva, ma anche quella affettiva. Oltre che dai farmaci che controllano i sintomi, i malati di Parkinson traggono beneficio dall’attività motoria, da una dieta corretta e, importante, dalla socializzazione. Molti malati riferiscono la propria vergogna nel mostrare il tremore delle mani, sintomo visibile a tutti.

Condividere il proprio percorso con altri malati e in ambienti in cui si è a proprio agio, aiuta la qualità della vita e a combattere lo stigma nei loro confronti. Intervista al professor Paolo Calabresi, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, per conoscere meglio questa condizione ed eventuali novità terapeutiche.

Che incidenza ha il Parkinson in Italia?

R. – La statistica ci dice che è una malattia che, a parte rare forme giovanili, colpisce la popolazione anziana ed il rischio di ammalarsi di malattia di Parkinson aumenta in modo esponenziale con l’età; in realtà, possiamo dire che, dopo la malattia di Alzheimer, la malattia di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa, e statistiche più recenti dicono che, secondo studi epidemiologici effettuati negli Stati Uniti, sembra che la forbice tra la malattia di Alzheimer e la malattia di Parkinson, due malattie neurodegenerative fortemente e invalidanti e legate all’età senile, si stia riducendo, cioè la popolazione con malattia di Parkinson stia aumentando, forse per una diagnosi più precisa ed anche più precoce.

Con quali sintomi si manifesta?

R. – I tre sintomi canonici sono dei sintomi motori ed in particolare il tremore a riposo, la rigidità e, quella che noi chiamiamo in gergo tecnico, la bradicinesia, cioè la lentezza nei movimenti. Tuttavia, oggi sappiamo che la malattia di Parkinson, forse proprio nella fase più iniziale, addirittura prima che inizino i disturbi motori, si possa manifestare con dei disturbi che sono premotori, ad esempio si è vista una correlazione epidemiologica con la perdita dell’olfatto, con la stipsi, con la depressione, quindi segni che noi facciamo fatica per riportare alla malattia di Parkinson, ma, di nuovo, studi epidemiologici ci dicono che quando c’è la convergenza di questi tre sintomi non motori è possibile porre il sospetto, comunque seguire con grande attenzione un soggetto che presenti tutti e tre questi sintomi.

Quali sono i fattori che portano all’insorgenza del Parkinson?

R. – Direi quello più classico, che fin dall’inizio nella storia proprio dello studio della malattia di Parkinson è stato individuato, è stato la perdita delle cellule dopaminergiche del cervello, cioè la dopamina è un neurotrasmettitore fondamentale per la comunicazione all’interno del cervello, la dopamina è un neurotrasmettitore che regola non solo l’attività motoria, ma anche la vita affettiva, anche l’attività cognitiva e quindi, quando questo neurotrasmettitore scende a livelli importanti nel cervello, per avere una vera e propria malattia di Parkinson abbiamo necessità che il neurotrasmettitore si blocchi fino all’80 al 90% rispetto al controllo, allora possono comparire sia i disturbi non motori che motori. E’ chiaro che oltre a questo neurotrasmettitore oggi si è posta l’attenzione ad altri neurotrasmettitori come la serotonina, la noradrenalina, che agiscono in concerto con la dopamina per regolare le nostre funzioni motorie, le nostre funzioni affettive, cognitive e che, anche esse, sembrano essere significativamente ridotte nel cervello dei pazienti con malattia di Parkinson.

Il ruolo dei fattori ambientali?

R. – Il ruolo dei fattori ambientali è molto importante. Alcuni studi ai primordi dell’investigazione sul ruolo ambientale hanno posto, ad esempio, l’attenzione sul fatto che nei centri rurali, nelle zone agricole, l’incidenza di malattia di Parkinson fosse più alta rispetto alle città, e questo ha lasciato immaginare che pesticidi, agenti utilizzati come fattori per eliminare i parassiti, potessero avere un ruolo tossico sul sistema nervoso centrale. Poi, un’altra informazione importante è stata quella genetica: poco più di 20 anni fa, venne individuata un’alterazione di una proteina, di un gene che codificava una proteina,  che è la alfa-sinucleina, in un gruppo molto ristretto di popolazione che era una popolazione nella zona intorno a Salerno: queste erano delle popolazioni che, nelle epoche estremamente arcaiche, erano migrate dalla Grecia a Salerno, proprio nella cosiddetta Magna Grecia, ebbene queste erano queste popolazioni erano portatrici di un gene mutato che è proprio l’alfa-sinucleina. Qual è la cosa importante? Che l’alfa-sinucleina è alterata non solo in queste rarissime forme genetiche, ma anche nelle popolazioni di malattia di Parkinson che vediamo nei nostri ambulatori, quindi, quella che noi chiamiamo malattia di Parkinson sporadica. E allora c’è un grande investimento di ricerca sulla comprensione della funzione di questa proteina che, essendo alterata, potrebbe andare ad attivare centri di morte neuronale importanti nel cervello, quindi, oggi abbiamo un nuovo territorio di investigazione che è proprio l’alterata funzione dell’alfa-sinucleina. E contro questa alfa-sinucleina, oggi, si stanno studiando degli anticorpi monoclonali, o anche un’immunizzazione attiva che possa ridurre la marcia di questa proteina anomala da un singolo gruppo di neuroni a tutto il cervello, quindi la nuova frontiera degli studi sulla malattia di Parkinson è proprio capire questa funzione anomala di questa proteina per poterla poi controllare con farmaci che ne regolino la diffusione in altre aree cerebrali.

Quindi, c’è un’ereditarietà o una familiarità?

R. – Io direi che ereditarietà e ambiente giocano un ruolo sinergico perché la vera e propria ereditarietà, fortunatamente, è in rarissime forme geneticamente determinate, ma molti pazienti che noi vediamo, la stragrande maggioranza dei pazienti che noi vediamo in ambulatorio, sono forme sporadiche, cioè che non hanno netta la caratteristica dell’ereditarietà. Oppure, se c’è una tendenza all’ereditarietà, non è localizzata in un singolo gene, ma è patrimonio di molti geni, quindi, un’ereditarietà più complessa, ma anche meno grave rispetto alle forme che noi definiamo monogeniche e che si possono presentare perfino in età giovanile rispetto alle forme che, invece, non propriamente geneticamente trasmesse, che in genere si manifestano nell’età adulto-avanzata.

La diagnosi è di tipo clinico o necessita anche esami diagnostici specifici?

R. – Questa è una domanda molto importante. La diagnosi è sempre di tipo clinico, per questo bisogna rivolgersi ad un neurologo che vada a ricercare quegli elementi clinici, soprattutto a carico del movimento, la lentezza, il tremore, la rigidità, ma dobbiamo cogliere anche degli elementi che possano essere premonitori, anche degli elementi molto sottili. Laddove ci siano dubbi, perché spesso anche nell’armamentario clinico di un neurologo molto esperto ci sono delle zone di incertezza e allora abbiamo degli accertamenti di medicina nucleare, il cosiddetto Datscan, si studia un trasportatore proprio della dopamina che nel cervello di questi pazienti risulta essere significativamente ridotto. E allora, questo coadiuva la diagnosi clinica ed è un elemento che serve a fugare i dubbi nelle zone di incertezza, soprattutto con altre malattie.

Professor Calabresi, facciamo un focus sull’importanza delle attività atte a migliorare la qualità della vita delle persone affette dalla malattia di Parkinson, quindi attività fisica, relazionale, attività culturali…

R. – Queste oggi hanno un ruolo molto importate, sembra un luogo comune, in varie malattie si dice fate attività fisica, tenete impegnato il vostro cervello. Ebbene, nella malattia di Parkinson, abbiamo prove circostanziate, sia in modelli sperimentali che nell’uomo, che l’attività fisica eseguita in modo metodico riduce la disabilità e, per certi versi, potremmo dire anche la progressione soprattutto nelle fasi iniziali di malattia. Quindi serve in qualche modo a mantenere quella riserva motoria che, invece, se non si pratica un’attività fisica, si rischia di perdere. Ma quando dico attività fisica, dico cose molto semplici, non sono necessarie palestre iperattrezzate: è la passeggiata, la passeggiata a passo svelto, spesso anche quelle passeggiate che oggi vanno molto di moda con i bastoni (ndr: Nordic Walking) e soprattutto anche attività fisiche che si fanno insieme. Ad esempio, ci sono alcuni centri negli Stati Uniti che stanno lavorando in modo molto scientifico studiando il ruolo del ballo, il ballo in comune. Ho visitato il Centro della New York University dove c’è un training che si fa utilizzando degli insegnanti professionisti di arte e quindi la art therapy, sia arti visive che musicali. Sembra avere un ruolo importante. Consideriamo che queste terapie danno anche gioia ai pazienti, danno gioia per lo stare con gli altri, danno gioia anche per discutere quali sono gli aspetti della malattia e quindi essere più informati. E non sono rischiosi, quindi è una terapia ideale che può essere messa a punto e, ovviamente, a questa terapia poi si affianca, quando necessario, la terapia farmacologica e speriamo una terapia farmacologica che negli anni futuri permetta non solo di essere una terapia sintomatica come oggi accade – manca la dopamina, diamo dei farmaci che potenziano la dopamina – ma anche una terapia che possa bloccare la malattia e addirittura farla tornare indietro. Tuttavia nonostante i grandi sforzi degli studi universitari, delle accademie, delle aziende ospedaliere, questo farmaco ideale che riesca a bloccare l’espansione della alfa-sinucleina, ancora non è nelle nostre mani, ma speriamo di avere dei risultati consistenti nei prossimi anni.

In quest’ultimo anno di pandemia a causa del Covid-19, sono diminuiti gli accessi per le visite di controllo o la prima visita quando una persona pensa o le persone che le sono accanto pensano che ci possa esser un inizio di malattia? E anche se è cambiata la loro qualità della vita, ovviamente, non potendo essere seguiti in quest’ultimo anno come precedentemente…

R. – Ha sollevato un punto molto importante la pandemia ha creato danni gravi, ovviamente per l’infezione virale, ma anche per l’impossibilità di accedere in modo libero ai controlli ai centri diagnostici. Noi, come Policlinico Gemelli e come Neurologia del Gemelli, abbiamo fatto nella prima ondata della pandemia un’intervista a 2700 pazienti con malattie croniche neurologiche e in tutti è stato in qualche modo lamentato un disagio, un peggioramento, perché vi era stata una minore possibilità di fare attività fisica, attività che noi dicevamo poco fa essere così importante nella terapia di questi pazienti. La pandemia ha generato paura e solitudine perché molto spesso queste persone che, in genere sono persone anziane, sono state visitate meno, anche per amore, dai figli, dai nipoti, per evitare l’infezione e questa è stata una deprivazione sentimentale e affettiva che ha influito anche nella sfera motoria, perché questi pazienti si sono mossi meno e hanno fatto meno visite di controllo. Oggi, forse siamo in una fase dove conosciamo meglio la risposta da dare a questi pazienti. I centri regionali, le associazioni, hanno messo a punto una sorta di telemedicina, quindi di consulenza a distanza che in parte dichiara la carenza di supporto dal punto di vista ambulatoriale, ma comunque permette di dare alcune risposte anche ai pazienti che hanno nel proprio cuore un sentimento di maggiore certezza e di paura e rassicura anche i familiari. Comunque, con le dovute precauzioni, abbiamo ripreso a fare day hospital, visite di controllo, a riattivare i ricoveri. Insomma, è un momento difficile, ma comunque la possibilità di conoscere i rischi, di regolare il distanziamento, non dico che abbia permesso di tornare ad un’attività clinica normale, ma comunque di non interromperla in modo drastico come era stato fatto nel primo periodo della pandemia.

In prossimità della Giornata Mondiale dedicata alle persone con malattia di Parkinson. Qual è il suo consiglio, un suo commento per le persone che ne sono affette e per chi se ne prende cura?

R. – La prima cosa è: ha notato che noi chiamiamo questa malattia oggi malattia di Parkinson, non ‘morbo’ di Parkinson? Evitare lo stigma, fare in modo che questi pazienti non si vergognino. Molti si preoccupano del tremore, tremore che rende visibile la malattia e crea imbarazzo. Io spiego sempre a questi pazienti che, paradossalmente, il tremore non è il più cattivo dei segni. I pazienti lo vivono con grande ansia, ma se si fanno degli studi di storia naturale della malattia si vede, ad esempio, che i pazienti che hanno il tremore hanno forme meno gravi di malattia e quindi è necessario informare, spiegare a questi pazienti, dir loro quello che stiamo facendo, le possibilità di quello che facciamo, ma anche i limiti. Molto spesso sentire una trasmissione televisiva, una trasmissione radio, su questa malattia, si sente che c’è la molecola miracolosa, poi alla fine il paziente si ritrova sempre a discutere e ad affrontare la malattia con i soliti farmaci. E allora questo può generare un senso di frustrazione. Questo non ci deve essere. E’ un ruolo importante che devono avere i familiari, anche del mangiar bene, è importante dare delle informazioni riguardo l’alimentazione, riguardo l’attività fisica, come dicevo, all’impegno cognitivo. Tutte queste cose che sembrano piccole cose, ma messe insieme, oggi fanno sì che i pazienti con malattia di Parkinson abbiano una vita migliore rispetto a quella che avevano 20-30 anni fa, di essere sostenuti non solo dal medico di famiglia e dal neurologo, ma da un approccio multidisciplinare che oggi sappiamo essere molto importante. Spesso è necessario che per la dieta intervenga un consiglio del gastroenterologo, per gli aspetti cognitivi noi ci basiamo anche molto sull’attività dei nostri psicologi. Quindi, sono tutti elementi che fanno del supporto al paziente con malattia di Parkinson, il neurologo, diciamo attore principale, ma che si confronta con tanti altri specialisti e quando necessario mette in relazione il paziente con altri specialisti per dare una terapia direi globale che tenga a rispondere a tutte le necessità di un paziente con malattia di Parkinson che, con il progredire della malattia, diventano spesso necessità sempre più complesse.