Antonella Palermo – Città del Vaticano
Domani Papa Francesco celebrerà la Santa Messa con il Rito della benedizione e imposizione delle Ceneri presso l’Altare della Cattedra, alle 9.30 nella Basilica di San Pietro, e non come tradizione nella Basilica di Santa Sabina all’Aventino. La partecipazione dei fedeli sarà molto ristretta in ottemperanza alle misure sanitarie di protezione. Quale significato assume l’imposizione delle Ceneri oggi, dopo un anno dall’inizio della diffusione di un virus ancora temibile, che ha mietuto quasi due milioni e mezzo di vittime nel mondo? Lo abbiamo chiesto al teologo Padre Ermes Ronchi, dell’Ordine dei Servi di Maria:
R. – Penso che le ceneri sul capo delle persone siano come una inclusione battesimale. Le ceneri sono semplici. Sono la semplificazione finale delle cose. Nel ritmo naturale di un tempo, le ceneri del focolare di casa dei contadini venivano restituite alla natura in primavera sparse sui campi, lungo i filari delle viti, nell’orto, per rendere la terra più fertile, per darle nuova energia. Allora, sul capo del fedele, hanno questo significato lontano, legato alla verità della natura, alla verità del senso, alla verità delle cose. Non tanto: ‘ricordati che devi morire’ ma ‘ricordati che devi essere semplice e fecondo’. Le ceneri sono ciò che rimane quando non rimane più niente, sono il minimo, il quasi niente. Ma da qui si può e si deve ripartire. Noi siamo in una situazione difficile, ma si può e si deve ripartire.
C’è l’economia della piccolezza nella Bibbia, l’economia della povertà. Davanti a Dio non c’è niente di meglio che essere così; diceva Simone Weil: essere niente come l’aria davanti al sole, pura trasparenza. Ecco, le ceneri sono questo niente per non fermarci, farci ripartire. Con la Quaresima si entra nel cammino della trasformazione, della evoluzione e il cuore della trasformazione è essere piccoli e fragili dove Dio entra, lo Spirito entra come soffio. Non spaventarsi di questo essere fragili, ma pensare alla Quaresima come trasformazione dalle ceneri alla luce, dal residuo alla pienezza. Io lo vedo un tempo non penitenziale, ma vitale, non tempo di mortificazione, ma di vivificazione. È il tempo del seme dentro la terra. La Quaresima inizia sempre in inverno, che è l’ultima delle stagioni, un po’ la cenere dell’anno, e termina sempre in primavera. Questa sapienza della natura – il creato è la prima parola di Dio – ci fa guardare alla primavera che non si spaventa di nessun inverno, Dio non si spaventa da nessuna cenere in cui io sono seduto o che sono ridotto a diventare.
Il Papa ha detto che la Quaresima sarà un tempo favorevole per dare un senso di fede e di speranza alla crisi che stiamo vivendo. Lei come traduce queste parole?
R. – Basta aprire gli occhi. Basta guardarsi attorno. Basta avere questo senso che la vita è un percorso che va dalle ceneri alla luce, dalla fatica alla corona. È un tempo di potatura perché abbiamo fatica, qualcuno ha perso delle persone care, la nostra vita viene alle volte aggredita. Però io penso alla potatura delle piante: i giardinieri potano gli alberi non per penitenza, ma perché ritrovino l’energia di primavera, li riportano all’essenziale. Ecco, viviamo un tempo che ci può riportare all’essenziale, riscoprendo ciò che è permanente nelle nostre vite, da ciò che è effimero. Quindi è un dono questo tempo per dare più frutto, non per castigare ma per rendere fecondi. Questa per me è la speranza.
Nel Messaggio per la Quaresima, Francesco ci invita a digiunare anche dalla saturazione di informazioni, vere o false che siano. Come risuonano in lei questi suggerimenti?
R. – È vero che siamo saturati da una pandemia di messaggini. A me risuonano come profondamente veri. Noi siamo lì sempre attaccati a questi strumenti, con gli occhi e con le orecchie sugli smartphone, su internet. Se noi guardassimo negli occhi cinquanta volte al giorno le persone così come guardiamo il telefonino, guardandole con la stessa attenzione e intensità, quante cose cambierebbero? Quante scoperte faremmo? Il bombardamento è così veloce che non abbiamo neanche il tempo di elaborare una nostra visione delle cose. Ci hanno tolto il piacere di pensare che è uno dei più belli che abbiamo in regalo. Sono notizie che ci portano a vivere fuori di noi stessi, di riflesso, di eco, di sponda, dentro una realtà che non siamo noi, elaborata dagli altri. Allora io penso, la verità delle delle cose va vista dentro l’amore, come dice San Paolo. Vuol dire che quando una cosa è senza amore, non è vera, quando è intollerante non è vera. Questo bombardamento ci porta a vivere in una bolla virtuale anziché dentro l’atmosfera dell’amore. I criteri sono l’effetto, l’audience, il numero di like… E questo porta fuori, e per me è la cosa più pericolosa.
L’orizzonte della fraternità è ciò che più sta a cuore al Papa. Siamo ancora capaci, secondo lei, di nutrire questa dimensione, oppure il distanziamento forzato ci ha in qualche modo incattiviti?
R. – Un virus non cambia il cuore dell’uomo, non cambia la profondità delle persone. Penso che noi abbiamo due strumenti maggiori per avere una Pasqua di fraternità: la carità e il perdono. La carità è il prenderci cura e la cura si nutre di tenerezza verso l’altro; il perdono è quello che libera il futuro delle persone, non tanto libera il passato. Penso che il perdono da cogliere e da offrire sia qualcosa da chiedere al Signore. Vuol dire liberazione, nel Vangelo è usato il verbo della nave che salva, della carovana che parte al levare del sole, dell’uccello che spicca il volo, della freccia che scocca. E’ vero che è una Pasqua di fragili, questa, di molti crocifissi, ma quello che a me è chiesto è il segno della carità. Gesù è venuto a portare questa rivoluzione della tenerezza e la rivoluzione del perdono senza misura. Sono queste due cose che costruiscono la fraternità universale.