Il carmelitano scalzo parla dal suo letto di ospedale a Bologna: gli hanno impiantato una protesi al piede falcidiato. Racconta la sua avventura per le strade dissestate del Paese e quella lunga più di quarant’anni in una terra dove “basta che hai un’arma e ti senti il padrone dello Stato”. Corruzione, traffici sospetti, mire geopolitiche straniere: in una regione contesa, la voglia di riscatto passa anche per la Fiera agricola nata 18 anni fa grazie alla Caritas
Antonella Palermo – Città del Vaticano
“Sono nelle mani del Signore, quindi non ho problemi, ho fiducia”. Il carmelitano scalzo padre Norberto Pozzi, lo riferisce dal letto dell’ospedale Rizzoli, a Bologna, dove da un mese è stato trasferito dal Centrafrica per un doppio intervento al piede che ha reso necessaria l’amputazione a seguito dei danni riportati per lo scoppio di una mina. Il missionario settantunenne, di origini lecchesi, ha un parlare familiare, a tratti ironico, rivelatore di un morale che continua ad essere alto pur in una condizione di sopraggiunta fragilità.
“Non sarà come prima, ma al Signore servo ancora”
“Certo, uno pensa ‘non sarà più come prima, non sarà più semplice come prima’, anche con una protesi. Ma io fin dall’inizio ho pensato che il Signore mi ha lasciato in vita perché gli servo ancora”. Parole disarmanti di un uomo che per la deflagrazione di un’arma ci stava invece rimettendo la vita. Lui che da oltre quarant’anni conosce dal di dentro la Repubblica Centrafricana e che si adopera con i suoi confratelli per promuovere uno stile di convivenza pacifica in una terra pervasa da tensioni, fortissime e continue. “Avevo programmato alcuni viaggi in savana, nei villaggi – ci racconta – ma per alcuni motivi uno ho dovuto rimandarlo. Portavo con me un falegname per riparare tutti i banchi delle scuole, c’erano delle porte da aggiustare. Pensavo di mettermi pure io a preparare un fondo di bianco ai muri che ne avevano bisogno. Era anche l’occasione per vedere un po’ come procedeva l’insegnamento nelle classi. Lungo il cammino un mio operaio mi dice che ai piedi della montagna avevano messo delle mine. Arrivo a un doppio ponte, mi ricordo fino a lì. Poi un vuoto completo”.
La commozione per la premura di tanta gente sconosciuta
Più tardi, ripresa conoscenza, qualcuno gli avrebbe detto che lo aveva salvato l’airbag. La macchina sul ciglio, inclinata. Viene caricato su una moto e portato fino a Bozoum. Si ritrova nell’ospedale della città già con il piede sinistro immobilizzato e un po’ ripulito, aveva perso molto sangue. “Gli infermieri mi dicevano che c’era molta gente, anche fuori a pregare. Al mattino mi ricordo che mi hanno preso in barella per mettermi su un elicottero, all’uscita molti mi hanno salutato, mi sono ritrovato a Bangui, la capitale. C’era un mucchio di miei confratelli che hanno optato per l’ospedale dell’Onu. Mi hanno trasportato là dove mi hanno fatto un primo assesto con dei ferri. E poi di nuovo non mi ricordo più niente”. A Kampala, in Uganda, dove sono specializzati nel riparare le lacerazioni di questo tipo di incidenti, gli venivano lette le mail che arrivavano da ogni dove con l’affetto di amici, ma anche di perfetti sconosciuti. “Ho visto che s’è mossa un sacco di gente (si commuove, ndr). Ho ringraziato il Signore che ci fosse tanta gente a pregare. È un segno di quanta bellezza c’è nella Chiesa, la bellezza per quanto si è attenti agli altri, con gli amici, con le famiglie, con i movimenti. M’ha toccato quella cosa lì, così in grande. La premura”.
La libertà di affidarsi totalmente a Dio
“Nei primi momenti ho detto ‘accidenti, adesso se mettono le mine, cosa ci torno a fare?’. Di saltare su una seconda mina non ho voglia. Però poi mi sono fatto un programmino per tornare probabilmente in dicembre per finire una chiesa che mi sta a cuore, vedere un po’ se posso dare qualche insegnamento, qualche dritta al padre che verrà al posto mio, sistemare la mia camera che è diventato un bazar. Poi vediamo, non mi preoccupo adesso, se posso resterò là, altrimenti mi sposto in una missione dove non si trovano mine. Non ho problemi”. Padre Norberto è arrivato in Centrafrica come missionario laico nell’80 rimanendoci per una prima fase fino all’88, tornando in Italia ogni tre anni. Nell’87 decise di farsi frate; consacrato nel ’95, è stato subito inviato là, prima a Bozoum, poi Baoro, Bouar. Il suo è il racconto di chi, per natura e per allenamento in un territorio ostico, riesce a mostrare quella sana e assai spirituale ‘indifferenza’ che lo rende libero e docile alla provvidenza e alla volontà di Dio, in qualunque posto si trovi a vivere.
La missione nei villaggi remoti, per strade impraticabili
Addentrarsi nei villaggi più remoti cosa significa? “Io vado nei villaggi le domeniche. Quando arrivi devi confessare e le confessioni prendono molto tempo: dalle due alle tre ore. La Messa comincia all’una e si torna a casa alla sera. C’è un catechista che è il pilastro della comunità – racconta ancora il religioso – ma quando arriva ‘il padre’ si possono ricevere i sacramenti, si può chiedere un consiglio, c’è sempre una grande attesa del ‘padre’. Fanno le offerte per le necessità della diocesi e della chiesa. Negli ultimi tre quattro anni ci tengono molto a fare offerte. Durante l’inverno non si va perché si rimane impantanati dentro a due fiumi”.
Un Paese dove la tranquillità non è di casa
Quando la conversazione con padre Pozzi si allarga al contesto più generale in cui vive il Paese e a quel grido di Papa Francesco: “Giù le mani dall’Africa”, lui sorride. E, tra l’amaro, il disincantato e il realista, dice: “Tutto quello che succede qui viene dall’esterno. È giusto il messaggio del Papa. Qui basta avere in mano un’arma che si sentono potenti, grandi e forti. E in effetti possono fare quello che vogliono. Ricordo che nel 2003 una quarantina di ribelli presero Bozoum”. Poi aggiunge: “Chi è a capo delle istituzioni nella capitale può anche dire che il Paese è tranquillo, ma qui non è tranquillo un bel niente. Da un anno i ribelli mettono le mine. Se le mettono da un giorno all’altro, uno passa e salta in aria”.
Il Centrafrica e gli appetiti stranieri
In effetti, il Centrafrica è tra i Paesi più poveri del mondo e si trascina da anni in una serie di guerre mai del tutto spente. Da un paio di anni, come osservano i missionari, è in gioco una guerra per assicurarsi il primato geopolitico. Alla fine dell’anno scorso il contingente militare francese ha lasciato la capitale, mentre gli appetiti russi aumentano. Lo lamenta il padre Aurelio Gazzera, carmelitano di lungo corso nella regione, che cita un proverbio africano: “Quando gli elefanti lottano, chi ci rimette è l’erba”. Denuncia che da mesi la comunità internazionale reagisce tagliando fondi e finanziamenti, ed “è molto probabile che prossimamente la Repubblica Centrafricana non sarà più in grado di assicurare il pagamento dei salari dei funzionari”. Intanto, la giudice Danielle Darlan, una delle pochissime voci che si sono opposte all’illegalità e alla prepotenza, è stata deposta dal suo ufficio alla presidenza della Corte Costituzionale. Contestualmente, il Paese si è lanciato nell’avventura fallimentare delle criptovalute, operazione che desta più di qualche perplessità e che, sempre secondo il religioso, rinvia a possibili canali di riciclaggio di capitali. Anche la penuria di carburanti alimenta qualche dubbio: ufficialmente non c’è, ma si trova al mercato nero. “E le opposizioni sono deboli e poco credibili”, aggiunge padre Aurelio.
Fiera agricola di Bozoum, fiore all’occhiello del riscatto
C’è un motivo di orgoglio che nei carmelitani ha trovato il suo volano e che rappresenta una valvola di sviluppo importante: proprio padre Gazzera, confratello di Pozzi, nel 2004 grazie alla Caritas diocesana e nell’ambito di un progetto post-conflitto, ha creato la fiera agricola di Bozoum. Gli agricoltori delle cooperative arrivano ogni anno anche dai villaggi più toccati dalla violenza ed espongono i propri prodotti in vendita. Quest’anno anche la cooperazione belga ci ha messo il suo aiuto per facilitare trasporti e organizzazione: le strade continuano infatti ad essere disastrate. Il giro d’affari di quest’anno equivale a circa 120 mila euro, cifra considerevole in un Paese dove il prodotto pro-capite è intorno ai 400 euro annui. Una festa di colori e anche un momento di ascolto delle problematiche di chi lavora la terra.
Guardare al bene comune
“Tutti i poteri tendono a egemonizzare tutto, accade un po’ ovunque”, chiosa padre Pozzi. “Il problema è che qui sono tutti poveri. Sì, ci sono finanziamenti per fare delle cose ma spesso si ruba e non si riesce a far niente. Perché l’uomo è affamato di soldi e potere – scandisce – soprattutto i governanti. La corruzione è l’unica via per avere le cose. E gli africani si adattano a quella via”. Guardare davvero al bene comune, la sfida resta sempre quella. “Quando le potenze straniere pensano al bene comune, quando la gente al potere di ogni Stato pensa al bene della gente, allora potremo dire che il riscatto pieno c’è”, spiega. “Ma dove succede realmente questo? Chi pensa davvero così? Ciascuno pensa a quello che può essere il bene per lui o si è guidati dalle ideologie. Dovremmo invece pensare se Dio sarebbe d’accordo su ciò che vorremmo fare, quello è il bene. Questo è il criterio per scegliere”.