Federico Piana- città del Vaticano
“Se li perdono? Certamente. E lo faccio con tutto il cuore”. Dal suo letto d’ospedale a Nairobi, in Kenia, dove è stato operato di nuovo per ripulire le ferite dalle schegge di proiettile, padre Christian Carlassare racconta di non voler condannare i sicari che in Sud Sudan lo hanno ferito alle gambe a colpi di kalashnikov dopo averlo aggredito nella propria abitazione: ”Lo faccio perché sono giovani e certamente non hanno agito per una ragione contro di me. Sospetto che qualcuno gli abbia commissionato questo gesto. Dunque, mi sento di perdonare, come perdono chi li ha spinti a comportarsi così. E lo faccio a nome di tutta la gente di Rumbek che, quando sono stato colpito, era fuori dall’ospedale cittadino e dall’aeroporto, dicendomi: padre non abbandonarci, padre ritorna. Non volevano lasciarmi partire per non perdere il loro vescovo”. Poi aggiunge, con voce serena, senza un minimo di risentimento, che ciò che lui offre “è un perdono che chiede unità, ascolto e capacità di risolvere i problemi cercando il bene di tutti”.
Ricordare è doloroso, se la sente di poterci raccontare cosa è accaduto nella notte dell’agguato?
R.- Ero già a letto quando ho sentito che qualcuno stava armeggiando con la porta d’ingresso. Mi sono alzato e ho cercato di capire cosa stesse accadendo. Dopo dieci minuti, le due persone armate di kalashnikov hanno iniziato a sparare contro il lucchetto della porta. A quel punto, ho iniziato a chiedere aiuto: tenevo ferma la porta con la mano ed un piede mentre cercavo di riparami dietro ad un muro. Un sacerdote della diocesi di Rumbek, che vive con me, è uscito allarmato dalla propria stanza ed io ho subito pensato che fosse meglio allontanarsi da casa per parlare con queste persone. Appena fuori, in pochi secondi, il fucile puntato contro le mie gambe ha sparato sei o sette colpi, quattro dei quali mi hanno colpito.
Secondo lei, quale potrebbe essere la ragione di questa aggressione?
R.- E’ difficile dirlo. Adesso, le indagini sono in corso e si spera che si faccia chiarezza. La mia impressione è che, sicuramente, il movente non può essere la rapina. Ma escludo anche l’omicidio perché, se avessero voluto ammazzarmi, l’avrebbero fatto con estrema facilità. Io penso che sia un atto intimidatorio, un avvertimento.
Lei è stato, da sempre, impegnato nel dialogo e nella riconciliazione del Paese, scosso anche da odi tribali. Il suo ferimento potrebbe mettere fine a questo suo sogno di pace?
R.- Questa non è la mia azione ma è l’azione di tutta la Chiesa. E’ il messaggio del Vangelo che non può cambiare davanti agli ostacoli e le difficoltà. La situazione di croce che stiamo vivendo ci costringe, anzi, ad essere più fedeli ancora al messaggio del Vangelo sapendo anche che si potrà pagarne il prezzo.
Sembra un’azione necessaria perché il Paese ha bisogno di uscire dalla spirale di violenza…
R.- Sì. Sarà un impegno che continuerà. Il governo di unità nazionale deve essere portato in tutti i territori della nazione e deve essere condiviso anche da tutti i clan del Paese.
Il mondo, per lei, in queste ore è stato con il fiato sospeso. Si sente di rivolgere un messaggio a tutti quelli che si sono preoccupati per lei?
R.- Io, personalmente, ho sofferto questo ferimento, ma il popolo sud sudanese ha sofferto molto di più in questi decenni. E, quindi, richiamo il mondo a condividere questa solidarietà con il popolo sud sudanese e con i popoli di tutti i continenti, cercando di capire che questi casi isolati, che fanno tanto rumore, non devono farci perdere la speranza e renderci ciechi tanto da non vedere il buono che c’è nel mondo e, soprattutto, in Africa.