Chiesa Cattolica – Italiana

Padre Bordo: i poveri mi hanno insegnato che la vita è un dono

A colloquio con il missionario italiano fondatore della “Casa di Anna” a Seul, una delle istituzioni caritative più importanti della Corea del Sud. L’oblato di Maria Immacolata racconta ai media vaticani la sua esperienza di oltre trent’anni al fianco dei poveri e degli scartati della capitale sudcoreana.

Alessandro Gisotti

“Dare da mangiare agli affamati”. Padre Vincenzo Bordo ha preso sul serio questo comandamento d’amore del Signore. Giusto 30 anni fa, nel 1993, ha fondato una mensa per i poveri a Seong Nam, nella periferia di Seul, dove era arrivato tre anni prima come missionario oblato di Maria Immacolata. Cinque anni dopo, quella piccola realtà, nata per dare un piatto caldo ad un piccolo gruppo di persone, è diventata la Casa di Anna, una delle istituzioni caritative più importanti del Paese asiatico che, ad oggi, ha fornito oltre 3 milioni di pasti a migliaia di persone, garantito più di 20 mila interventi sanitari e realizzato tante altre iniziative a supporto degli “scartati” che vivono negli angoli bui della luccicante capitale sudcoreana. Nel 2014 il missionario ha ricevuto il premio Ho Am Sang, una sorta di Nobel della Corea del Sud. Nato 66 anni fa a Piansano – piccolo centro del viterbese – padre Vincenzo ha sentito fin da giovane la vocazione per la missione che lo ha portato prima in Senegal e poi appunto a Seul dove si è fatto “coreano tra i coreani”, fino a voler assumere il nome Kim Ha Jong che nella lingua locale significa “servo di Dio”. In questa nostra intervista, padre Bordo ripercorre la sua esperienza di missionario a fianco degli ultimi e condivide l’insegnamento ricevuto dai poveri sulla bellezza della vita che è sempre dono, anche se segnata dalla sofferenza.

Il cardinale coreano Lazaro You Heung-sik ha scritto a proposito della nascita della Casa di Anna: “Non è che non ci fossero i poveri, è che non li si voleva vedere. Per riconoscere gli esclusi occorre uno sguardo di fede e di amore”. Questo certamente vale per Seul, ma vale in fondo per ogni luogo del mondo…

R. – Credo che sia una questione non di occhi ma di cuore! Mi rendo conto, quando incontro un povero, che la prima cosa è guardare i suoi occhi. Negli occhi si può intravedere la sofferenza di una persona, intravedendo questa allora mi avvicino e gli chiedo qualcosa, lo saluto, e poi lì nasce un dialogo. Quindi, per incontrare un povero occorre un cuore, un cuore capace di amare, di vedere gli occhi di un povero.

Chi sono, oggi, i poveri di Seul, una grande metropoli di un Paese super-moderno, tecnologico?

R. – Sono in Corea del Sud da 30 anni: la Corea, rispetto a quando sono arrivato, è un altro Paese e vorrei dire, quasi un’altra cultura. La città di oggi è una città ricca, complessa, articolata e intelligente. Chi non sta a questi standard, a questi livelli, chi non riesce ad avere un’intelligenza articolata non riesce a seguire questa società e rimane ai margini. Quando sono arrivato – negli anni Novanta – i poveri erano gli straccioni: erano sporchi, con vestiti laceri … Adesso non è più così. Tantissimi dei nostri ospiti hanno il telefonino. Non è più quella povertà di una volta, non è la miseria: è un altro tipo di povertà. Persone che sono lasciate da parte, che non riescono a seguire i ritmi di questa società.

La Casa di Anna in qualche modo ricorda la “Chiesa con il grembiule” di cui parlava don Tonino Bello e che oggi tante volte viene richiamata da Papa Francesco. Cosa cerca la gente che bussa alla porta delle vostre strutture oltre il pasto caldo che è la prima molla che li spinge a rivolgersi a voi?

R. – La Casa di Anna svolge diverse attività. Noi lavoriamo per la gente di strada, giovani e anziani e offriamo tantissimi servizi. Però, credo che il dono più grande, più bello che possiamo dare sia la speranza. C’è un povero che ha fame: sa che “vado alla Casa di Anna, posso mangiare”; una persona lasciata ai margini che ha problemi con la legge, “vado alla Casa di Anna, posso incontrare un avvocato”; una persona che ha problemi di salute, “vado alla Casa di Anna e c’è un dottore che mi cura”. Più di ogni altra cosa è questo: accogliere, ascoltare e poi cercare di aiutare. Appena arrivato a un povero dirgli “io ti aiuto” significa umiliarlo. Il primo livello è accogliere una persona: “Benvenuto; siediti, ti offro un caffè”. Dargli dignità: un povero innanzitutto ha bisogno di dignità e forse questo è il motivo per cui ogni giorno, prima di iniziare i pasti con i volontari si inizia con una preghiera; poi si va fuori con i volontari e con un grande cuore formato sulla testa – con le braccia si forma un grande cuore – si passa davanti a ognuno, guardandolo negli occhi e gli si dice: “Ti voglio bene, ti voglio bene”, ripetuto 500 volte, per ognuno di loro …

I poveri ricevono, ma anche donano. Forse a volte donano più di quello che ricevono. Che insegnamento ha ricevuto in questi tanti anni di vita quotidiana con i poveri, stando in mezzo a loro?

R. – Stando con loro ho imparato tantissimo. Innanzitutto, la prima cosa, la più grande: che la vita è bella. Mi ricordo una notte – noi andiamo in giro di notte a trovare la gente di strada – era freddo, era buio; c’era un signore che stava sull’asfalto, tutto infreddolito. Gli dico: “Come stai?”, mi dice: “Bene”. “Ma come fai a dire che stai bene, che stai male?”. E mi risponde: “La vita è bella, la vita è un dono”. La seconda realtà che mi hanno insegnato è che la sofferenza non è una maledizione di Dio, una punizione, ma un’opportunità. Cosa significa? Ogni essere umano deve affrontare la sofferenza, prima o poi; se questa viene accolta, accettata, amata in qualche maniera, libera il nostro cuore, lo rende più puro, anche la nostra mente si libera a spazi nuovi. Al contrario, se la sofferenza viene rifiutata, viene messa da parte ci rende più cattivi, più aspri. E la terza: ho scoperto un Volto nuovo, diverso di Dio, non tanto un Dio che sta glorioso, pacifico e tranquillo in Cielo ma un Dio che piange vedendo i suoi figli che soffrono, un Dio che sta in mezzo a noi, un Dio che incontro in un anziano che tende le mani per una scodella. Lo incontro nei ragazzi che vedo di notte sulle strade … è un Dio che vive sulle strade!

Papa Francesco definisce questi poveri sulle strade, questi “scartati” dalla società, “la carne sofferente di Cristo”…

R. – Sì. La spiritualità della Casa di Anna – e anche la mia personale – è la spiritualità dell’Apostolo Tommaso. Quand’è che Tommaso ha acquistato la fede? Quando ha toccato le piaghe di Cristo Risorto. Quello che dico a me stesso e ai volontari: le persone che vengono qua non sono poveri, ma sono le piaghe di Cristo Risorto. Cristo è risorto e sta in mezzo a noi, è vivo, è presente. Dove sono le piaghe di Cristo Risorto? Dove c’è una persona che soffre, abbandonata, un ragazzo che vive sulla strada! Quindi noi alla Casa di Anna lavorando per i poveri tocchiamo le piaghe di Cristo Risorto; abbiamo l’onore, la gioia di accogliere, aiutare, curare le piaghe di Cristo Risorto. Questo è quello che mi ha sorretto e mi sorregge in questi anni.

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