Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
L’intensificarsi dei combattimenti nel Tigray, regione dell’Etiopia settentrionale, fa temere che la resa dei conti tra Addis Abeba e ribelli tigrini sia più vicina. Il leader del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, Debretsion Gebremichael, ha annunciato la liberazione dei circa mille soldati governativi catturati durante i recenti combattimenti, precisando però di averne ancora prigionieri oltre cinquemila, nonché un imminente processo per gli alti ufficiali. I combattimenti proseguiranno, così come annunciato dai ribelli, fino a quando il Fronte di Liberazione non avrà ripreso il controllo del territorio conteso nel sud e nell’ovest della regione.
Il contrattacco di Addis Abeba
Nelle ultime tre settimane il TPLF ha riconquistato la maggior parte della sua regione di origine. Il premier etiope Abiy Ahmed, premio Nobel per la Pace nel 2019, il mese scorso, aveva dichiarato un cessate il fuoco unilaterale, proclamato mentre le truppe governative abbandonavano la capitale regionale Mekelle di fronte all’avanzata del TPLF, una tregua in parte accettata dai ribelli ma poi revocata dallo stesso Ahmed, deciso a passare al contrattacco con il supporto di tre regioni che hanno deciso di rafforzare l’esercito nazionale sul fronte occidentale.
La catastrofe umanitaria
Da quando è scoppiata la violenza, otto mesi fa, si sono registrate migliaia di vittime, gli sfollati sono circa 2 milioni e oltre 5 milioni di persone dipendono dagli aiuti alimentari d’emergenza, i convogli umanitari, come denunciato dalle Nazioni Unite, vengono bloccati dalle autorità etiopi, accusate da Amnesty International anche di aver arrestato in modo arbitrario centinaia di persone di etnia tigrina nella capitale Addis Abeba, tra loro giornalisti e attivisti, alcuni dei quali anche picchiati. Del drammatico scenario parla a Vatican News, Paolo Borin, ambasciatore del Sovrano Ordine di Malta presso la Repubblica Federale Democratica di Etiopia e rappresentante permanente presso l’Unione Africana:
Ambasciatore, di fronte a questa grave situazione e al perdurare della violenza, quale potrebbe essere l’imminente scenario secondo lei?
Lo scenario a breve non è facilmente decifrabile. Siamo in una fase in cui le diverse posizioni si sono fortemente radicalizzate. Ciascuna delle parti, governo federale e ribelli tigrini, è forse al culmine della propria intransigenza. Sembra che una reciproca accettazione per iniziare a dialogare non sia vicina, ma è anche vero che ragione e cuore dicono che non vi è alternativa alla pace. Le pressioni in questo senso, interne ed esterne, aumentano. Il Paese è allo stremo, inquieto anche in altre aree del suo territorio, l’economia dopo anni di crescita anche a due cifre, è in picchiata, l’inflazione è altissima, il potere d’acquisto crollato, gli investitori in fuga. Dal lato esterno anche la comunità internazionale, per lungo tempo silente, censura sempre più insistentemente quanto accade in Tigray e i diritti umani violati, e tutto ciò è ben noto ai decisori. Ragione e cuore devono quindi portare verso l’unica direzione possibile: quella del silenzio delle armi e dell’avvio di dialoghi di pace. Premesse perché il Paese riprenda il cammino di sviluppo che aveva intrapreso e che tante aspettative sul suo futuro aveva generato.
Lei ha appena citato questa gravissima e continua violazione dei diritti umani. I civili sono vittime della violenza, vittime di una drammatica e gravissima crisi umanitaria. Si parla di circa due milioni di sfollati, di oltre 400 mila persone che hanno superato la soglia della carestia e i convogli umanitari riescono con difficoltà a raggiungere le popolazioni Quindi, qual è la situazione e quali sono le necessità?
Relativamente alle necessità potrei limitarmi a rispondere sbrigativamente, ma senza sbagliare, che c’è necessità di tutto. Le vie di transito sono interrotte o comunque di difficile percorrenza, nel caso dell’apertura di qualche varco. Il rischio di carestia incombe sempre più concreto. Dicevo che manca tutto, mancano cibo, acqua elettricità, comunicazioni, carburante, medicine, materiale sanitario in genere, anestetici, disinfettanti. Aggiungerei anche i ricoveri per le centinaia di migliaia di persone sfollate che vagano per il territorio. Insomma, una tragica lista della spesa per un dramma umanitario i cui effetti purtroppo dureranno a lungo.
In che modo l’Ordine di Malta interviene in questa drammatica situazione?
Come noto l’Ordine di Malta è una istituzione neutrale ed imparziale che opera nel mondo per aiutare poveri, bisognosi e ammalati. Sostanzialmente, e molto riassuntivamente, lavora per promuovere i diritti umani, la pace ed il bene comune. Circa la crisi del Tigray, l’Ordine si è mosso secondo due grandi direttrici: da un lato, una convinta – ma appropriata nei modi – moral suasion nei confronti dei decisori, per puntare ad alcuni obiettivi urgenti: un vero e duraturo cessate il fuoco, la salvaguardia della vita e della dignità umana, in special modo per donne e bambini e per i soggetti più fragili, che meno di tutti c’entrano con questa tragica guerra. E poi ancora: la creazione di un canale umanitario per far transitare i soccorsi, l’indispensabile protezione delle strutture sanitarie presenti nella regione, la salvaguardia delle infrastrutture esistenti, come ponti, strade, centrali elettriche, indispensabili per la ripresa che, prima o poi, dovrà esserci ancora. Ultimo, ma non ultimo, la protezione dei luoghi di culto a qualunque confessione essi appartengano, in quanto elementi identitari di quelle popolazioni. Dall’altro lato, quello più umanitario, in un mare di bisogni e con enormi difficoltà pratiche per portare gli aiuti, abbiamo scelto di concentrarci su una congregazione religiosa femminile che gestisce scuole e orfanotrofi in due città del Tigray. Si tratta di scuole frequentate da numerosissimi alunni e attorno alle quali ruotano le famiglie e anche una significativa quota di popolazione locale. In maniera sicura, stiamo facendo giungere aiuti economici che si tramutano in cibo, acqua e medicine per alcune migliaia di persone. Allo studio abbiamo altre iniziative e non mancheremo di fare fino in fondo la nostra parte per questa terra tanto colpita.