Fabio Colagrande e Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Nove anni di assenza forzata del fondatore padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito a Raqqa, in Siria, il 29 luglio 2013, non hanno fiaccato la Comunità di Deir Mar Musa, che sta continuando il suo cammino. E che in questi giorni di ricordo e di rinnovata attesa, parla attraverso il libro “Paolo Dall’Oglio e la Comunità di Deir Mar Musa. Un deserto, una storia” di Francesca Peliti, amica del religioso romano e presidente dell’Associazione Amici di Deir Mar Musa. Pubblicato da una settimana da Effatà, raccoglie le testimonianze di monaci e monache che a vario titolo hanno fatto parte della Comunità ma anche dodici lettere scritte da padre Paolo agli amici tra il 1985 e il 1995.
La presentazione del volume con Immacolata Dall’Oglio
Il volume è stato presentato la mattina del 28 luglio, vigilia dell’anniversario del rapimento di padre Dall’Oglio, nella sede romana della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, da Immacolata, la sorella del gesuita, con l’autrice, padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, che ha scritto la prefazione, Cenap Aydin, direttore Istituto Tevere – Centro pro Dialogo e Giuseppe Giulietti, presidente Fnsi. I diritti d’autore derivanti dalla vendita del libro saranno devoluti alla Comunità di Deir Mar Musa.
Padre Lombardi: “Paolo è presente, ma non c’è solo lui”
Nelle tre sedi attive della Comunità, i monasteri di Deir Mar Musa, in Siria, Deir Maryam al-Adhra a Sulaymanya nel Kurdistan iracheno, e il monastero del Santissimo Salvatore a Cori, in Italia, scrive padre Lombardi nella prefazione, “Paolo è presentissimo, come origine, guida e ispiratore di questa straordinaria avventura, e anche con le sue lettere. Ma non c’è solo lui. Ed è proprio per questo che la Comunità c’è ancora”.
Un punto di incontro fisico tra Oriente e Occidente
In quelle montagne desertiche ad est di Nebek, nell’agosto di 40 anni fa, l’allora giovane gesuita paolo Dall’Oglio, scelse il monastero diroccato di Mar Musa per i suoi esercizi spirituali. Quel luogo e la spiritualità che ne emana diventano la sua missione del giovane gesuita che lì trova anche un punto di incontro fisico e simbolico fra Oriente e Occidente. Nel corso di lunghi anni la visione teologica e spirituale di padre Paolo ha coinvolto un gran numero di persone, le ha colpite, cambiando il corso delle loro esistenze. Così Dal 1982 il monastero di Mar Musa al-Habashi, ovvero di San Mosè l’Abissino, è diventato un saldo punto di riferimento per il dialogo islamo cristiano ed è passato attraverso numerose trasformazioni, sopravvivendo alla guerra, alla minaccia dell’Isis e al rapimento del suo fondatore avvenuto a Raqqa il 29 luglio 2013.
Cammino che continua, guidato dal pensiero di padre Paolo
Il viaggio iniziato per mano di padre Paolo non è finito con la sua scomparsa. Al contrario. Negli scritti raccolti dalla Peliti, che si è occupata di editorie e comunicazione e che oggi collabora nell’azienda agricola del marito nelle Marche, studia teologia e con altri amici sostiene la Comunità di Deir Mar Musa, questa Comunità rinnova un voto di fede che trascende le vicende storiche, per rimettere al centro il pensiero del suo fondatore.
I tre monasteri in Siria, Iraq e Italia
La Comunità di Deir Mar Musa, è costituita oggi da 8 membri, 1 novizio e 2 postulanti. A questi si aggiungono i laici che a vario titolo lavorano e collaborano nei tre monasteri oggi attivi. Purtroppo il monastero dedicato a Mar Elian (san Giuliano) a Qaryatayn – un’oasi sulla strada verso Palmira – è stato distrutto dall’Isis nel 2015. Qui è stato rapito a maggio 2015 fra’ Jacques Mourad, parroco della piccola comunità cristiana locale, poi liberato dopo 5 mesi di prigionia. Mar Elian aveva accolto durante la guerra molti sfollati e con grande dedizione e passione fra’ Jacques aveva lavorato per mantenere viva l’armonia tra i cristiani e i musulmani anche nei momenti più bui. Anche il monastero a Sulaymanya ha accolto dal 2014 al 2018 numerose famiglie fuggite da Qaraqosh per l’avanzata dell’Isis.
Peliti: accoglienza, gioia e amore da fratelli con l’Islam
La priorità della Comunità, è l’ospitalità abramitica, quella che praticarono i monaci in ogni epoca: fatta di servizio, misericordia e perdono, di saggezza e direzione spirituale, della mensa comune e del silenzio, dell’accoglienza dell’altro nella sua ricchezza e nel bisogno, il suo carisma particolare e la sua sete spirituale. Di tutto questo Francesca Peliti parla in questa intervista su Radio Vaticana Italia:
Come ha conosciuto padre Paolo Dall’Oglio?
Ci siamo conosciuti quando eravamo adolescenti, avevamo circa 15 anni e frequentavamo lo stesso gruppo scout a Roma e lì è cominciata pian piano la nostra amicizia che abbiamo mantenuto nel tempo, anche se eravamo diversi. Qualche volta non eravamo d’accordo, però abbiamo avuto sempre una grande stima l’uno per l’altro e per fortuna durante tutti questi anni la nostra amicizia è maturata, è cresciuta ed è veramente un’amicizia molto profonda. Che già da tanti anni si è allargata alla sua comunità. Ho voluto scrivere questo libro come ringraziamento a Paolo e alla comunità, perché la conoscenza di Paolo, l’incontro con Mar Musa e la conoscenza di tutti i membri della comunità è stata per me una cosa molto importante. Un motivo è quindi l’amicizia, e l’altro è il voler testimoniare come questa comunità, e quindi i frutti di padre Paolo, non sono andati dispersi. La comunità c’è, cresce, è maturata: è una piccola comunità, però è rimasta fedelissima agli insegnamenti di Paolo ed è anche molto cresciuta in questi anni. Perché perdere in questa maniera, così tragica, il fondatore e poi c’è stato il rapimento anche del co-fondatore, padre Jacques Mourad, che per fortuna però è stato liberato dopo 5 mesi di prigionia, potete immaginare che non sia facile.
Però quello che è accaduto sembra, anche leggendo il libro, che vi dia una forza particolare e un desiderio di portare avanti il suo sogno, la sua visione spirituale e teologica. Scrive Padre Lombardi nella prefazione a questo volume: “Il dono che ha trovato la sua prima culla a Mar Musa rimane, non apparteneva solo a Paolo”. Qual è questo dono?
Sono tanti doni. Direi che il primo è una visione decisamente aperta di accoglienza: le persone che arrivavano e che arrivano tutt’oggi e speriamo continueranno arrivare a Mar Musa, ma anche negli altri monasteri, sono colpiti dal tipo di accoglienza che ricevono. L’accoglienza per la Comunità è sacra, è una cosa sulla quale Paolo insisteva moltissimo. Insieme all’ accoglienza c’è questo rapporto veramente di buon vicinato, di amore, non soltanto di dialogo interreligioso con i musulmani e verso l’Islam. Non è un dialogo fatto di chiacchiere, ma che si fa vivendo assieme, accogliendo l’altro, cercando di mettere alle spalle i propri pregiudizi. Per me sono state molto interessanti le testimonianze che ho raccolto, e credo valga la pena sottolineare che non è facile. Tutti i protagonisti che ho ascoltato hanno parlato del loro impegno per accogliere, per guardare i musulmani in maniera diversa. Quindi nulla è scontato e nulla è facile e per questo vale. Un’altra cosa che devo sottolineare dei monasteri è la gioia: Uno pensa ad un monastero come un posto chiuso, di preghiera, invece no: i monasteri possono essere al centro del mondo. C’è più mondo in un monastero nel deserto, che forse in una grande città.
Lei giustamente sta usando il plurale monasteri, perché oltre a quello iniziale di cui abbiamo appena parlato, di Deir Mar Musa che padre Paolo decide di ricostruire negli anni ’80, quando ci capita quasi casualmente, ci sono state altre tre sedi della comunità di Mar Musa…
In totale oggi sono tre perché erano quattro, ma quello di Mar Elian che era sempre in Siria in un’oasi, Qaryatayn, a metà strada tra Mar Musa e Palmira ed stata distrutta dall’Isis nell’agosto del 2015. Rimane Mar Musa, rimane Deir Maryam dove sta fra Jenz Petzold e poi l’ultimo, che è diventato monastero, ma nasce come studentato a Cori, in provincia di Latina a pochi chilometri da qui, e mi fa piacere dirlo perché uno pensa che sia tutto lontano. Invece c’è un pezzettino di Mar Musa anche qui in Italia.
Papa Francesco che nel 2015 ha chiesto la liberazione di padre Paolo, ha mai incontrato la comunità di Mar Musa?
Sì, l’ha incontrata, e la comunità è stata molto colpita per le parole del Santo Padre.
La vocazione per il dialogo islamo-cristiano di padre Dall’Oglio non è perfettamente comprensibile da chi non conosce la storia dei cristiani nel Vicino Oriente. Non è vero?
Sì, perché la storia dei cristiani del Vicino Oriente è ricchissima, con tante Chiese diverse, e Paolo la definiva quella della Chiesa dei perdenti, quella in un certo senso più vicina a Gesù, che in croce è un perdente. Quindi questa Chiesa deve rimanere, non importa il numero, che per i cristiani è relativo. L’importante è esserci e per questo motivo anche l’idea di Paolo, che poi si è avverata un po’ nel Kurdistan iracheno, era di portare la presenza della Comunità in altri Paesi dove i cristiani sono in minoranza. Una cosa che mi ha molto colpito la prima volta nella quale sono andata a Mar Musa, è stato vedere l’Occidente in un qualche maniera con gli occhi dell’Oriente. Noi occidentali vediamo tutto dal nostro punto di vista. È stata un’esperienza molto interessante e molto coinvolgente, anche dal punto di vista emotivo, partecipare anche alle liturgie e al modo di pregare dell’Oriente. Si è molto vicini alla Chiesa delle origini, cosa che noi tutti sappiamo però a volte ce lo dimentichiamo.
Bisogna anche considerare il valore profetico di quanto fatto da padre Paolo Dall’Olio, che arriva in Siria prima delle primavere arabe, prima poi della guerra di cui poi lui stesso rimane in qualche modo vittima, quando scompare 9 anni fa. E ancora profetica fu la sua scelta di inviare fra Jenz Petzold nel Kurdistan iracheno, senza sapere che dopo qualche anno l’Isis avrebbe provocato, invadendo la Piana di Ninive in Iraq un esodo di profughi siriani in fuga proprio verso quelle zone. E quel monastero della comunità di Mar Musa accoglierà tantissimi cristiani. E presso il monastero di Dier Maryan al-Adhra a Sulaymania si trova fra Jenz Petzold…
Sono molto affezionata a fra Jenz come sono affezionata a tutti quanti. Devo dire che fra Jenz ha fatto un lavoro veramente enorme, instancabile, quando io sono stata da loro tre volte, la prima volta c’erano molto più profughi, e hanno dovuto mettere delle tende in Chiesa perché non c’era abbastanza posto fuori. Lui è riuscito poi ad avere dei container dove mettere le famiglie e lo chiamava il villaggetto. Però non è solo l’aspetto pratico di dare da mangiare e vestire ai profughi, perché c’è molta gente traumatizzata. Era così traumatizzata, perché fuggiva dall’Isis, che nonostante il grande aiuto che veniva da famiglie musulmane del quartiere, loro non riuscivano a capire, c’è voluto molto impegno per ricucire.