Michele Raviart – Città del Vaticano
Le Nazioni Unite vogliono la verità dalle autorità del Myanmar sul massacro – definito “orribile” – avvenuto la vigilia di Natale, vicino al villaggio di Mo So, nello Stato del Kafah, in cui sono morte carbonizzate 38 persone, tra cui due operatori di Save The Children. Per gli attivisti dell’opposizione la responsabilità ricadrebbe su soldati governativi. Per i media di Stato i soldati avrebbero sparato su un non meglio precisato numero di terroristi armati, mentre il sottosegretario per gli Affari umanitari dell’Onu, Martin Griffiths, afferma ci siano resoconti credibili che civili, incluso almeno un bambino, siano stati allontanati dai veicoli dove si trovavano, uccisi e poi bruciati.
Migliaia gli sfollati
“La situazione del villaggio rispecchia purtroppo quella di tante aree del Myanmar in questo momento”, spiega a Vatican News il giornalista esperto dell’area, Stefano Vecchia. “Il conflitto va irrigidendosi e gli scontri vanno incrementandosi, con le truppe governative che si contrappongono alle milizie di difesa popolare nate all’interno dei villaggi e nelle circoscrizioni per proteggere la popolazione civile, a cui si aggiungono le milizie etniche”, spiega. “Questo però crea una serie di conseguenze tra cui la fuga di molte migliaia di persone dalle aree sottoposte ai bombardamenti. Anche nelle ultime ore sono morte altre venti persone in un villaggio nella regione di Saigaing”.
Restano difficili le operazioni militare
La scomparsa dei due operatori di Save The Children testimonia la difficile situazione degli aiuti umanitari nel Paese, peggiorata dopo il colpo militare dello scorso febbraio. “Le operazioni delle organizzazioni non governative, soprattutto quelle internazionali, sono molto limitate su diversi piani, soprattutto nelle aree dove si trovano le minoranze etniche, perché la giunta militare sospetta di una connivenza con le milizie etniche”, sottolinea Vecchia, “e questo riguarda non solo le organizzazioni internazionali, ma nel mirino ci sono anche le iniziative caritative delle diverse religioni, in particolare quelle della Chiesa cattolica, tenendo presente anche che i cattolici sono una parte consistente delle minoranze”.
Rinviato il processo a Aung San Suu Kyi
Lo stesso cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon ha condannato in una lettera ogni violenza e ha implorato di deporre le armi. Allo stesso modo le Nazioni Unite, attraverso l’inviata speciale per il Myanmar Noeleen Heyzer hanno chiesto un cessate il fuoco in vista del nuovo anno, ricordando anche la ”sanguinosa repressione” con cui le forze di sicurezza hanno risposto alle manifestazioni di proteste seguite al golpe. Rinviato poi al dieci gennaio il processo al premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, già condannata a due anni per incitamento al dissenso contro i militari e violazione delle misure anti Covid. Diversi i capi di imputazione, fra cui quello di aver importato e posseduto illegalmente dei walkie-talkie. “La situazione è estremamente difficile – continua Vecchia – perché Aung San Suu Kyi rischia, se dovesse essere condannata per tutti i reati ascritti fino a 120 anni di carcere, tenendo presente che ha già passato buona parte della sua vita o in prigione o agli arresti domicilari. Le accuse sono un elemento di pressione affinchè lei e la Lega nazionale per la democrazia rinuncino a rivendicare il potere sul Paese e si accordino con i militari”, conclude.