L’arcivescovo di Perugia – Città della Pieve è tra i metropoliti ai quali domani nella Basilica Vaticana, nella celebrazione della solennità dei santi Pietro e Paolo, viene concesso il paramento liturgico simbolo dello speciale legame dei vescovi, nell’esercizio della loro giurisdizione, con il Pontefice: “Un dono che accolgo come segno di Chiesa, con un respiro di riconoscenza e responsabilità”
Tiziana Campisi – Città del Vaticano
“Sarò sempre fedele e obbediente al beato Pietro apostolo, alla Santa, Apostolica Chiesa di Roma, a te, Sommo Pontefice, e ai tuoi legittimi successori. Così mi aiuti Dio Onnipotente”. È il giuramento che domani, 29 giugno, presteranno gli arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno ai quali Papa Francesco concede il pallio, il paramento liturgico simbolo della comunione con la Chiesa di Roma. Il rito si svolge all’inizio della celebrazione eucaristica della solennità dei santi Pietro e Paolo, nella Basilica Vaticana, alle 9.30. Sono 32 gli arcivescovi metropoliti che hanno chiesto di ricevere il pallio e ai quali verrà imposto nella propria sede dal nunzio apostolico locale, 29 quelli presenti alla Messa presieduta dal Papa. Tra loro monsignor Ivan Maffeis, nominato il 16 luglio dello scorso anno alla guida dell’arcidiocesi di Perugia Città della Pieve.
A Vatican News, l’arcivescovo di Perugia – Città della Pieve sottolinea che il pallio è un richiamo alla comunione sia per i pastori che per le comunità dei fedeli. Tracciando, poi, un bilancio del suo primo anno nella arcidiocesi umbra, evidenzia l’impegno della Caritas nell’accoglienza degli extracomunitari e di fronte alle necessità dei più bisognosi ed evidenzia le difficoltà che tante persone stanno affrontando a causa dei danni provocati dai terremoti del 2016 e 2017 e dall’ultimo sisma del marzo scorso.
Lei ha ricoperto diversi ruoli nell’ambito della Conferenza Episcopale Italiana e da circa un anno è arcivescovo di Perugia – Città della Pieve. Ora riceve il pallio, che valore ha per lei?
È un segno di una profonda comunione con il Santo Padre; da una parte, è un richiamo a vivere questa comunione e, dall’altra, è anche un dono che accolgo come segno di Chiesa, quindi con un respiro di riconoscenza e di responsabilità.
Il pallio è simbolo della comunione con la Chiesa di Roma, come la vivono i suoi fedeli questa comunione?
Credo che sia importante, per noi vescovi, essere sempre più fedeli, essere sempre più conformi al Magistero del Papa, quindi cercare di ascoltarlo, di far spazio nella nostra vita innanzitutto, e quindi nel nostro servizio, alle sue indicazioni e alla sua testimonianza, alla parola e all’opera che il Santo Padre sta portando avanti. Nelle comunità io trovo una grande attenzione per la figura del Papa, trovo affetto, trovo stima, e trovo anche attesa che le riforme che sta portando avanti possano concretizzarsi, a partire da una riforma che ci riporti alla freschezza e alla gioia del Vangelo.
Qual è la realtà sociale odierna della sua arcidiocesi?
Io ho iniziato a girare l’arcidiocesi mettendomi in ascolto dei sacerdoti, innanzitutto, e quindi delle comunità, degli animatori delle comunità. La realtà sociale, per certi versi, vive di rapporti stretti con le istituzioni. Ho trovato un po’ ovunque una grande disponibilità, una grande attenzione per il servizio della Chiesa e una buona disponibilità alla collaborazione. Nel concreto, questo si traduce in un impegno fattivo della nostra Caritas diocesana a lavorare sui temi dell’accoglienza, quindi del far posto, del far spazio a chi arriva da altri mondi in cerca di una speranza di vita, e una grande attenzione, anche, alle tante povertà, materiali e non solo, che sono presenti sul territorio. Trovo un po’ ovunque dei centri d’ascolto, le parrocchie sono vive. I centri di ascolto vivono in stretto rapporto con gli empori della Caritas, con i servizi della Caritas e quindi con una Chiesa che cerca, per quanto possibile, di essere all’altezza delle tante domande che attraversano la società, con un’alleanza sempre più forte, nel rispetto dei ruoli, con le istituzioni civili.
Quali sono i bisogni più urgenti della chiesa di Perugia – Città della Pieve?
Dopo avere accennato alla carità, credo che il bisogno più urgente sia quello di uomini di Dio. Uomini di Dio nei preti, innanzitutto, quindi testimoni che aiutino non solo a riconoscere il Signore, ma anche ad accoglierlo, a seguirlo. Uomini di Dio nel laicato, nella vita religiosa. Per certi versi i segni di crisi, della secolarizzazione, che attraversano la società sono anche i segni di crisi della secolarizzazione che attraversano le nostre comunità, la nostra Chiesa. Credo che, nella misura in cui riusciamo a custodire il tesoro di una tradizione e al contempo a cercare che non sia semplicemente qualche cosa di ieri, ma che cerca di interpretare questo tempo e a vivere con semplicità, con disponibilità, il Vangelo, oggi ci siano tante opportunità di incontro con un mondo che per certi versi è lontano e per altri non aspetta altro che trovare una proposta e una testimonianza di fede e di speranza.
L’Umbria soffre ancora le ferite provocate dalle scosse sismiche del 2016 e 2017. In che modo la Chiesa è al fianco della gente?
Noi abbiamo avuto qui, in arcidiocesi, un terremoto, lo scorso 9 marzo, molto limitato, che non ha fatto vittime e che quindi è scomparso subito dai media, ma in alcune comunità ci sono persone prive della propria casa, della propria abitazione, del proprio negozio, delle proprie aziende e anche delle chiese. Ci sono alcune comunità che hanno le chiese chiuse ormai da mesi e con i sacerdoti noi cerchiamo di renderci presenti per accompagnare anche questa stagione non facile. Alcune famiglie sono ospitate in diocesi e per gli altri si cerca per quanto possibile di essere comunque un segno di prossimità sul territorio, andando a visitare, andando a celebrare e andando ad organizzare strutture per lo più all’aperto o comunque provvisorie, in attesa di poter metter mano a una riapertura anche delle chiese, che sarà un processo molto lungo. Allora, da una parte stiamo cercando di chiedere un contributo, almeno minimo, alla Conferenza episcopale italiana per riaprire una o due chiese. La chiesa in un paese rappresenta sicuramente il luogo del culto, ma rappresenta anche un luogo di comunità, in cui ritrovarsi, in cui vivere dimensione più ampia, quindi stiamo puntando su questo. È un cammino che stiamo cercando di fare anche con le istituzioni, perché, se da una parte è urgente riaprire, simbolicamente, almeno qualche chiesa, dall’altra è altrettanto importante, se non prioritario, che le persone siano messe nelle condizioni di poter metter mano alle proprie abitazioni o all’azienda che magari è stata danneggiata con gravi ripercussioni sul mondo del lavoro.