di Andrea Monda
Yazan piange. Ha fame. È nato il 23 agosto, in mare, sul mare nostrum, tra la Turchia e Cipro dove è riuscito ad arrivare e ora sta lì, in seconda fila nella chiesa di Santa Croce a Nicosia, a pochi metri dal Papa che sta conducendo la preghiera ecumenica con i migranti, momento conclusivo della visita apostolica nell’isola di San Barnaba. Il papà di Yazan invece non c’è, è stato “respinto”, e con lui gli altri figli, fratelli e sorelle del piccolo che ora ha smesso di piangere: la mamma Kawthar gli ha dato un po’ di latte in polvere. Ogni tanto però fa sentire la sua voce, “disturbando” il discorso del Santo Padre che dialoga con i migranti dopo aver ascoltato quattro testimonianze intense, drammatiche. Ma il vero “disturbatore” è il Papa, con le sue parole, al punto che al termine del suo discorso si sente quasi in dovere di dire: «E scusatemi se ho detto le cose come sono, ma non possiamo tacere e guardare dall’altra parte, in questa cultura dell’indifferenza». Niente scuse, solo ringraziamento. Con animo grato anche se turbato, profondamente commosso, la folla esce dalla Chiesa; la visita a Cipro, piacevole e tranquilla come il clima di quest’isola “perla” del Mediterraneo, ha trovato nell’incontro con i migranti il suo vertice di intensità, il culmine della tensione, il momento in cui i nodi sono venuti al pettine e sono emersi tutti i significati profondi che hanno spinto Papa Francesco fino a questa piccola isola.
Anche il Papa ha parlato in questi due giorni di un papà e di una mamma, e anche questa famiglia rischia di essere divisa come quella di Yazan: la “famiglia” di Dio Padre e della Chiesa Madre che non possono essere per alcun motivo separati, eppure, a volte, la storia degli uomini è riuscita in questo miracolo negativo. La paternità di Dio ci dice che siamo tutti (tutti noi esseri umani) suoi figli, la maternità della Chiesa ricorda ai cristiani la stessa cosa, che siamo tutti figli della stessa madre e quindi fratelli tra di noi.
Sulla Chiesa che è madre e riunisce di continuo i suoi figli il Papa si è soffermato nell’omelia al Gsp Stadium venerdì mattina: è il motivo principale del viaggio del successore di Pietro che va a Cipro, sulle orme di Paolo e Barnaba e poi in Grecia a incontrare i fratelli ortodossi per un abbraccio schietto e libero come si fa tra fratelli in ogni famiglia. Il Papa ha parlato della sua nel primo incontro con la Chiesa cipriota nella cattedrale maronita di Nostra Signora delle Grazie, una famiglia di cinque fratelli dove si discuteva, anche vivacemente, ma si rimaneva fratelli, tutti riuniti attorno allo stesso tavolo.
L’altro motivo è ancora più “largo”, coglie l’orizzonte della paternità di Dio e spinge Papa Francesco, rivolgendosi agli abitanti di Cipro, a parlare agli uomini di tutto il mondo e in particolare di quella parte del mondo che si autodefinisce “civiltà sviluppata”, quella che, ha detto ieri pomeriggio nella chiesa di Santa Croce, «noi chiamiamo Occidente». Nelle sue parole si sente tutta l’urgenza che lo spinge a lanciare il suo grido d’allarme; parla di nuovo di guerra il Papa: «È la guerra di questo momento, è la sofferenza di fratelli e sorelle che noi non possiamo tacere». Lo aveva già accennato il patriarca dei Latini di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa nel saluto iniziale: «È una realtà di cui non si parla, se non in qualche momento particolarmente drammatico; è nascosta agli occhi della maggioranza della popolazione. Ma per quanto la si voglia tacere, essa balza, comunque, agli occhi di chiunque sia attento a quanto accade attorno a sé. Si tratta infatti di migliaia di persone, che non possono rimanere invisibili». La chiesa di Santa Croce, affollata anche di quelle persone invisibili, ha sentito l’assunzione di responsabilità che la Chiesa cattolica ha espresso con parole forti e chiare; il patriarca di Gerusalemme ha detto che la Chiesa «può dare ascolto alla voce di queste persone, dare loro un volto e un nome. È questa la nostra missione: ridare dignità e identità a persone che forse molti preferirebbero non vedere né incontrare, ma che esistono, sono reali e attendono la nostra risposta». Il Santo Padre ha affermato: «Questo lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi». Gridare alle coscienze per far aprire gli occhi. A questa logica risponde la logica, sorda e miope, dell’innalzare muri, elevare barriere ma, lo ha sottolineato Pizzaballa, «le barriere rappresentano la paura, e cancellano ogni promessa di futuro, evidenziano la nostra mancanza di visione».
È quindi la visione che manca, e con essa il sogno. Eppure la Chiesa esiste per lavorare (per essere un “laboratorio di fraternità” ha detto il Papa parlando di Cipro) a realizzare la profezia di cui parla Paolo nella Lettera agli Efesini nel brano che ha aperto l’incontro di preghiera ecumenica: «Voi non siete più stranieri, ma concittadini», e questa profezia esprime il sogno di Dio. Ecco cosa fa Dio Padre, sogna. Se la Chiesa madre riunisce i fratelli, Dio prima ancora, sogna: «Questa è la profezia della Chiesa» ha detto il Papa «una comunità che — con tutti i limiti umani — incarna il sogno di Dio. Perché Dio sogna […] un mondo di pace, in cui i suoi figli vivono come fratelli e sorelle».
Dio sogna e invece l’uomo dorme ma in un sonno senza sogni. All’uomo abbandonato al suo torpore il Papa si rivolge cercando di scuoterlo, ricordandogli che Dio ci parla proprio «attraverso i vostri sogni» e che quindi «il pericolo è che tante volte non lasciamo entrare i sogni, in noi, e preferiamo dormire e non sognare. È tanto facile guardare da un’altra parte. E in questo mondo ci siamo abituati a quella cultura dell’indifferenza, a quella cultura di guardare da un’altra parte, e addormentarci, così, tranquilli. Ma per quella strada mai si può sognare».
Mentre il Papa parla nella chiesa di Santa Croce c’è un silenzio intenso, vibrante, la folla è colpita, commossa. Ora anche il piccolo Yazan sta in silenzio, dorme. Chissà se sogna, e quali sono i suoi sogni.